Culture | Colonialismo

La storia di Adua

"Aiutiamoli a casa loro", dicono gli stolti. Ma quello che noi abbiamo fatto "a casa loro" lo sanno in pochi. Il nuovo romanzo di Igiaba Scego ci aiuta ad aprire gli occhi.

Esistono alcune persone che, quando pensano al colonialismo italiano in Africa, credono si sia trattato di un’impresa neppure troppo malvagia: “Gli abbiamo portato le strade, le infrastrutture, le scuole, la civiltà - dovrebbero ringraziarci”. Agli effetti collaterali di questa assai dubbia “esportazione di civiltà” (ma in realtà non si tratta di effetti collaterali, bensì di effetti costitutivi) pensano in pochi. Del resto, la grande maggioranza delle persone non ha la più pallida idea di cosa sia stato il colonialismo italiano. Nomi come “Etiopia”, “Abissinia”, “Somalia”, “Eritrea” galleggiano nella memoria collettiva come relitti di un tempo passato (anzi: trapassato) e incomprensibile. Chiamati ad indicare, anche solo sommariamente, i contorni di quelle zone, la quasi totalità dei nostri connazionali non saprebbe minimamente che fare e rimarrebbe con la matita in mano. Anche nei programmi scolastici, al colonialismo italiano non vengono dedicati che rapidissimi cenni. Non sia mai che un approfondimento degno di questo nome possa incrinare la favola degli “italiani brava gente” che amiamo sempre raccontarci (la predicazione “anti-buonista” dei vari Salvini, da questo punto di vista, sta appena muovendo i primi passi e non si è radicata a sufficienza).

Igiaba Scego è una scrittrice italiana, o come si dovrebbe dire somalo-italiana, che si è molto occupata di questa storia sommersa. In numerose pubblicazioni e interventi pubblici ha sottolineato con appassionata coscienza civile la necessità di sottoporre quel periodo nefasto a un’analisi non consolatoria e auto-assolutoria, tentando così di estirpare la mala pianta di un razzismo negli ultimi tempi fattosi sempre più evidente e disinibito (si ricorderanno i vergognosi attacchi, portati anche da sedicenti rappresentanti delle istituzioni, alla ministra Cécile Kyenge). Da pochi giorni è in libreria il suo ultimo libro (Adua, Giunti) e si tratta di un’opera che meriterebbe senz’altro una vasta diffusione.

Adua è costruito a strati ed espone la storia della protagonista – definita una “Vecchia Lira”, come si chiamavano le donne giunte in Italia durante la diaspora somala degli anni Settanta – nell’intersezione di altre voci, in primo luogo quella del padre, Zoppe, e del suo giovane compagno, sopravvissuto ai viaggi della “speranza” attraverso il Mediterraneo. Il libro ci racconta così tre generazioni di “neri” attraverso un’ampia campata storica: dal periodo fascista a quello delle odierne migrazioni. Si tratta di un racconto doloroso, a tratti molto crudo (per esempio le pagine nelle quali si narra dei pestaggi e dei soprusi compiuti dai fascisti ai danni di Zoppe, o le vicende legate alla triste “avventura” cinematografica di Adua), ma sempre capace di coinvolgerci grazie a una scrittura asciutta e perfettamente controllata, anche quando la narrazione rende porosi i confini tra i fatti e la loro interpretazione soggettiva (cioè riferita ai vari soggetti che la tessono).

Una notazione particolare merita il capitolo finale del libro, l’epilogo intitolato “Piazza dei Cinquecento”. Lo apre una citazione di Frantz Fanon, uno dei protagonisti del cosiddetto movimento terzomondista per la decolonizzazione: “Je demande qu’on me considère à partir de mon Désir” [Chiedo di essere considerato a partire dal mio desiderio]. Noi non siamo quello che siamo a partire da una datità insuperabile, che ci vincola al passato. Siamo anche quello che vorremmo e potremmo essere, seguendo per l’appunto il filo del desiderio. Come sanno tutti quelli che sono arrivati almeno una volta a Roma col treno, Piazza dei Cinquecento è il grande spazio posto davanti alla stazione Termini. Eppure, io stesso (prima di leggere il libro) ignoravo l’origine di quel nome. “Piazza dei Cinquecento legata alla mia storia come nessuna. Piazza dei migranti, dei primi arrivi, di tutte le partenze, di tutti i miei rimpianti”, dice Adua, scrive Igiaba. Ma chi erano, chi sono allora quei cinquecento? Si tratta dei cinquecento caduti nella battaglia di Dogali, combattuta in Eritrea il 26 gennaio del 1887 tra le truppe del regno d’Italia e le forze abissine durante la prima fase di espansione italiana in Eritrea. La prossima volta che ci passerete, che ci passeremo, pensiamoci.