Ci chiamavano banditi
Nel Giorno della Liberazione, lo storico Carlo Romeo ricostruisce con salto.bz le complesse vicissitudini che hanno accompagnato le Resistenze del nostro territorio. Resistenze, appunto, con schieramenti italiani e tedeschi decisi a correre su due binari paralleli, senza (quasi) mai incontrarsi. Ma tra i due binari ne corre anche un terzo, attraversato da ribelli, sognatori, per i più benpensanti da banditi e delinquenti, che nello scontro etnico non vi si riconoscevano. Riluttanti all’obbedienza, disertori e renitenti si sono organizzati in bande partigiane che hanno dato vita a una forma di Resistenza unica nel suo genere, diventando in poco tempo un modello per tutti coloro che non erano intenzionati a giurare fedeltà e sottostare al sanguinario regime nazista.
salto.bz: Prof Romeo, parlando di Resistenza nella nostra provincia è inevitabile partire da una constatazione di base: ci furono due Resistenze, una italiana e una tedesca. Furono davvero così diverse e lontane fra di loro?
Carlo Romeo: Nella stessa misura con cui fino ad allora era stata diversa la storia dei due gruppi. Quello tedesco aveva alle spalle vent’anni di oppressione fascista, poi le illusioni accese in tutte le minoranze tedesche di riunificazione nella nuova “Grande Germania” di Hitler, la lacerante esperienza delle opzioni del 1939. Il gruppo italiano era in formazione: concentrato nelle realtà urbane, fortemente diviso al suo interno per provenienza regionale e condizione sociale, legato e dipendente dalla presenza dello Stato, che allora si identificava nel regime fascista e nelle sue strutture. Anche considerando che comunque in entrambi i casi quello resistenziale fu un fenomeno che coinvolse fasce minoritarie della popolazione, la prospettiva migliore per comprenderlo è sempre partire dalle condizioni storiche in cui si trovavano i due gruppi nel 1943, cioè al momento della caduta del fascismo, dell’armistizio dell’otto settembre e dell’occupazione nazista.
Cominciamo allora con la Resistenza italiana, come nasce e si sviluppa?
La creazione della Zona di operazioni delle Prealpi (nei fatti è un’annessione al Reich) rappresenta uno shock per il gruppo italiano in provincia, che cerca di rompere quest’isolamento in diverse direzioni, anche ideologiche. Ad esempio nasce subito una rete fascista clandestina che tenta di collegarsi alla Repubblica Sociale Italiana, confidando ancora in Mussolini, che però non ha ormai nessuna autonomia. Nasce pure un movimento giovanile che, dichiarandosi “apolitico” (nel senso di “apartitico”), lancia l’appello a mettere da parte le divisioni ideologiche a favore della difesa nazionale. E poi c’è, appunto, un movimento che cerca invece contatti con i centri della Resistenza dell’Italia settentrionale, soprattutto Padova e Milano. I fili passano spesso attraverso Trento.
È un quadro quindi molto frammentato. Considerando lo stretto controllo, attraverso quali canali avvenivano questi collegamenti?
C’erano singole figure già legate ai partiti clandestini che avevano ripreso ad operare in Italia. Poi c’era la mobilità delle famiglie che sfollavano da Bolzano per i bombardamenti. Il canale più importante divenne comunque quello delle fabbriche. La zona industriale di Bolzano rappresentava una specie di cittadella sulla quale il controllo tedesco veniva esercitato strettamente sui ritmi produttivi (erano tutte fabbriche di interesse militare), ma lasciava alcuni spazi di autonomia al suo interno. Dopo il 25 luglio 1943 erano scomparsi anche gli informatori fascisti. Basti pensare che in quei due anni negli stabilimenti più grandi della zona industriale (Lancia e Acciaierie in testa) trovarono rifugio e occupazione non solo militari italiani sbandati ma persino partigiani veneti scampati ai rastrellamenti. I dirigenti degli stabilimenti erano quasi tutti molto vicini al movimento resistenziale e sui camion che collegavano Bolzano con le case madri o le filiali viaggiavano stampa clandestina, messaggi e informatori. Un volano per l’attività resistenziale locale fu senz’altro l’installazione del Durchgangslager di Bolzano nell’estate del 1944. Una delle conseguenze, infatti, fu che Bolzano entrò al centro degli interessi della rete nazionale della Resistenza. Arrivarono inviati, direttive, finanziamenti per organizzare fughe e assistere gli internati. A Bolzano si formò una rete di assistenza molto ben organizzata.
Il piccolo CLN di Bolzano pagò un alto tributo di sangue: interrogatori con torture, internamenti e deportazioni. Lo stesso Longon venne ucciso il 31 dicembre 1944 negli scantinati dell’ex Corpo d’Armata di Bolzano e fu simulato un suicidio
Quale ruolo svolse il Comitato di Liberazione Nazionale di Manlio Longon?
Inizialmente un ruolo di coordinamento politico rappresentando i diversi partiti: azionisti, socialisti, comunisti e democristiani. Quando da Giovanni Saulle la guida passò a Manlio Longon, dirigente del Magnesio, si ampliò il campo d’azione. Si trattava di coordinare l’azione di diverse cellule, intensificare la propaganda, trasmettere informazioni, assistere gli internati, i fuggiaschi e i ricercati. In qualche caso furono avviati volontari nelle formazioni partigiane trentine e bellunesi. Il contesto della provincia non rendeva ovviamente possibile la formazione di vere e proprie formazioni armate. Il più grande progetto militare a cui lavorò il CLN di Bolzano fu quello di interrompere con un’esplosione la linea stradale e ferroviaria nei pressi di Campodazzo. Ma finì male perché il trasporto di esplosivo dal Bellunese venne intercettato e la rete bolzanina venne quasi completamente arrestata. Il piccolo CLN di Bolzano pagò un alto tributo di sangue: interrogatori con torture, internamenti e deportazioni. Lo stesso Longon venne ucciso il 31 dicembre 1944 negli scantinati dell’ex Corpo d’Armata di Bolzano e fu simulato un suicidio.
Dopo questo duro colpo, come si riprese la Resistenza italiana locale?
Cessò per parecchio tempo l’attività di coordinamento del CLN, mentre continuò quella di piccoli gruppi autonomi. Il ricompattamento arrivò solo verso la fine della guerra, nella primavera del 1945, quando Bruno de Angelis ebbe l’incarico da parte del CLN Alta Italia di Milano di mobilitare le forze in provincia in vista della resa tedesca. La guerra in Italia stava finendo. Almeno da marzo erano cominciate le trattative segrete del generale Wolff con gli Alleati. De Angelis riuscì a inserirsi in queste convulse fasi e a ricevere dai comandi tedeschi l’amministrazione della provincia in nome del governo italiano, poco prima dell’arrivo degli Alleati. Non bisogna però attribuire al fatto in sé un’importanza decisiva per le sorti della provincia. La decisione alleata sui confini sarebbe stata dettata ovviamente da ragioni più generali, che coinvolgevano persino gli equilibri geopolitici.
La guerra in provincia finì con diversi episodi sanguinosi…
Sì: Merano, Lasa, Bolzano e altri. Ogni episodio ha una sua particolare storia, alcuni sono meglio indagati altri meno. Rientrano nelle stragi di fine guerra, caratterizzate da una ritirata aggressiva tedesca e dalla contemporanea mobilitazione partigiana. Quello più sanguinoso si verificò a Bolzano il 3 maggio, possiamo dire a guerra finita: infatti il giorno prima era entrato in vigore l’armistizio. Il bilancio fu di 36 morti e una sessantina di feriti tra partigiani e civili.
Passiamo ora alla Resistenza tedesca. Quali erano le sue basi di partenza?
Bisogna risalire alle opzioni del 1939 e alla lacerazione che avevano portato all’interno del gruppo sudtirolese. La propaganda dei Dableiber, sostenuta dalla maggioranza del basso clero, aveva messo in campo molti argomenti contro il nazionalsocialismo, soprattutto di carattere etico e religioso. Si era parlato del regime di terrore nel Terzo Reich, della persecuzione della Chiesa e degli ebrei, dell’eutanasia. Molto attivi erano stati i circoli giovanili cattolici sudtirolesi, che già nella seconda metà degli anni Trenta avevano cercato di contrastare la penetrazione del nazionalsocialismo. Alla base vi erano i fermenti della Katholische Jugendbewegung e l’insegnamento di Romano Guardini. Con il loro motto “Gewissen und persönliche Verantwortung” intendevano l’esatto opposto dell’obbedienza totalitaria richiesta dal fascismo e dal nazismo. È in questo humus spirituale che si erano formati personaggi come Josef Ferrari e Joseph Mayr-Nusser.
Nel novembre 1939 fu fondato l’Andreas Hofer Bund, l’organizzazione clandestina dei Dableiber. Non a caso il nome scelto era quello dell’eroe tirolese per eccellenza, che concentrava l’essenza dei valori della piccola Heimat contrapposta alla Grande Germania hitleriana. Dopo l’occupazione nazista, i Dableiber furono perseguitati. Friedl Volgger e altri furono internati, Michael Gamper si rifugiò a Firenze.
È a questo punto che appare in scena la figura di Hans Egarter?
Sì, Egarter si era già messo in luce ai tempi dell’opzione. Sua era, ad esempio, la poesia dei Dableiber sulla “Brennende Lieb” (il geranio), che rispondeva per le rime a quella degli optanti e rivendicando la fedeltà alla “Heimat” invece che alla Germania. Dopo l’arresto di Volgger, Egarter prese la guida dell’organizzazione, il cui obiettivo era soprattutto l’assistenza ai Dableiber, ai disertori e ai renitenti alla leva. Riuscì anche a mettersi in contatto con i servizi segreti inglesi in Svizzera, trasmettendo informazioni e ricevendo istruzioni e denaro.
[I disertori] furono circa 400. Si verificano casi in cui questi disertori non si limitano a tenersi nascosti e isolati, ma formano gruppi abbastanza organizzati. È il caso della Val Passiria, dove si verificano scontri a fuoco
Molti furono i disertori e renitenti sudtirolesi della Wehrmacht. In che rapporto possiamo metterli con la Resistenza?
Sì, furono circa 400. Diversi erano i motivi della loro scelta, che era tutt’altro che facile. Oltre a se stessi, infatti, mettevano a rischio i familiari che potevano essere arrestati come ostaggi finché non si fossero consegnati. Alcuni erano spinti da motivi religiosi e dal rifiuto della guerra. Altri avevano trascorso anni sui più diversi fronti e avevano visto la brutalità della guerra. Il libro di Leopold Steurer, Martha Verdorfer e Walther Pichler, Verfolgt, verfemt, vergessen è una preziosa raccolta di queste sofferte testimonianze. Riguardo al rapporto con la Resistenza, si verificano casi in cui questi disertori non si limitano a tenersi nascosti e isolati, ma formano gruppi abbastanza organizzati. È il caso della Val Passiria, dove si verificano scontri a fuoco. Nell’autunno del 1944, all’ingresso della valle, furono messi cartelli che segnalavano alle truppe tedesche in transito il pericolo di «bande». Vi furono operazioni di rastrellamento, condotte dalla gendarmeria tedesca appoggiata dal SOD, mirate alla cattura dei disertori.
Lei ha contribuito a far conoscere la biografia tanto notevole quanto rimossa di Karl Gufler. Cosa l’ha spinta a ripercorrere i passi del bandito della Val Passiria?
Perché era una figura a suo modo tragica, che riassumeva le contraddizioni del periodo. Inoltre aveva lasciato una traccia nella memoria popolare della valle. Orfano e di misera condizione sociale, Knecht senza alcuna prospettiva, appena ventenne opta per la Germania ed è subito sbattuto sui diversi fronti, dove combatte tre anni e mezzo. Ferito e decorato, alla prima licenza si dà alla macchia sulle sue montagne e il suo esempio “contagia” altri giovani del posto. Catturato e condannato a morte, gli viene data l’alternativa di essere arruolato in una “compagnia di punizione”, quelle mandate avanti come carne da cannone. Sul fronte orientale diserta una seconda volta e dall’Ungheria, con rocambolesche peripezie, riesce a tornare in Val Passiria. Qui diventa il riconosciuto capo dei disertori, che nel frattempo sono diventati una trentina. Si vendica di quelli che l’hanno arrestato ed è una minaccia continua per la gendarmeria e la SOD. Finita la guerra, per qualche mese il suo gruppo viene incaricato dagli Alleati di catturare SS e criminali di guerra rifugiatisi nella valle. Poi per lui non c’è un ritorno alla normalità. Continua a girare armato sopravvivendo con lavoretti occasionali, bracconaggio, furti e rapine, finché nel 1947 rimane ucciso in uno scontro a fuoco con una pattuglia di carabinieri. Nel registro dei funerali di San Martino il parroco annotò accanto al suo nome «Partisanenführer von Passeier».
La scelta di disertare nel contesto di una guerra ingiusta fu percepita finalmente nella sua dimensione etica
Come fu considerata nel dopoguerra l’immagine dei disertori e dei renitenti?
Nei primi anni Cinquanta ci furono addirittura due processi a 19 membri di quella che la stampa chiamò la “banda Gufler”. I capi d’imputazione andavano dall’omicidio all’incendio, dal furto alla rapina ed estorsione ai danni di nazisti o ex nazisti locali. Ciò portava indirettamente un certo discredito ad Hans Egarter, ex comandante dell’AHB. All’epoca, pur essendo stato tra i fondatori della SVP, era già stato emarginato politicamente. Nel primo processo, tenutosi a Bolzano, gli imputati vennero riconosciuti come membri del movimento di resistenza e furono assolti con varie formule e con l’applicazione della relativa amnistia. Questo riconoscimento non vi fu invece nel processo d’appello di Trento, che si concluse con dure condanne. Famoso è il caso di Hans Pircher, che fu liberato solo nel 1975, dopo che il suo era diventato un caso nazionale grazie al libro di Giambattista Lazagna, Il caso del partigiano Pircher.
Per molto tempo l’immagine dei disertori fu sostanzialmente negativa: traditori, imboscati, “ladri di speck”. Con gli anni Ottanta ci fu un mutamento, anche sull’onda del dibattito che si sviluppò in Germania. La scelta di disertare nel contesto di una guerra ingiusta fu percepita finalmente nella sua dimensione etica. Per la nostra provincia il segnale più chiaro di questo cambiamento credo possa essere individuato nella grande fortuna di Unvergessen, il libro di memorie di Franz Thaler.
Tornando alle due Resistenze, possiamo ricordare qualche tentativo, da parte di quella italiana e tedesca, di convergere tra loro?
Un filo tenue, ma di grande valore ideale, è rappresentato dai colloqui tra Manlio Longon ed Erich Amonn nell’autunno del 1944. Non ebbero conseguenze operative, anche perché Longon e buona parte del CLN finirono arrestati dalle SS all’inizio di dicembre. Longon aveva individuato Amonn come un possibile interlocutore perché era noto il suo orientamento antinazista. A uno di questi incontri assistette anche Enrico Serra, inviato del CLN Alta Italia di Milano e braccio destro di Ferruccio Parri. La questione dei confini non fu toccata: su questo non c’era possibilità di trovare un accordo. La linea del CLN era il mantenimento del confine del Brennero, Amonn era ovviamente per l’autodeterminazione.
Ma se sui confini non c’era possibilità di intendersi, di cosa parlarono?
Secondo me una traccia c’è in un memoriale che il CLN di Bolzano riesce a far arrivare, attraverso il servizio informazioni militari, al ministero degli esteri italiano, ormai a Roma. Risale alla prima metà del novembre 1944 e quindi proprio al periodo in cui si collocano questi colloqui. Ci sono molti punti interessanti. In primo luogo viene indicata la complicità fascista nell’esito delle opzioni, interpretate quindi come un inganno delle due dittature alle spalle dei sudtirolesi. Poi c’è un esplicito riconoscimento dei Dableiber come vittime, perseguitati dai nazisti come e più degli italiani. Ma soprattutto c’è il richiamo alla necessità, una volta finita la guerra, di assicurare un’ampia autonomia per il gruppo tedesco della provincia. Credo che di queste cose Longon e Amonn abbiano discusso nei loro incontri.
Ciò sarebbe stato scomodo nella battaglia diplomatica che si annunciava, di fronte agli Alleati, sul destino della provincia. In altre parole, era già cominciata quella “guerra fredda etnica” che caratterizzò a lungo il dopoguerra in provincia
Lei ha scritto che anche dopo la fine della guerra per lunghissimo tempo le due Resistenze non si sono incontrate. Quali sono i motivi?
Faccio un esempio collegandomi proprio al memoriale appena citato. Nella stessa occasione il CLN di Bolzano chiedeva anche di stampare un volantino bilingue, italiano e tedesco, inneggiante alla resistenza, da far lanciare in 50.000 copie sul territorio della provincia. Roma respinse la proposta perché ciò avrebbe legittimato l’idea che esistesse anche un movimento di resistenza tedesco in Alto Adige. Ciò sarebbe stato scomodo nella battaglia diplomatica che si annunciava, di fronte agli Alleati, sul destino della provincia. In altre parole, era già cominciata quella “guerra fredda etnica” che caratterizzò a lungo il dopoguerra in provincia. Da una parte e dall’altra furono esibiti gli argomenti pro e contro della reciproca recente storia. Collaborazionismo e resistenza, ventennio fascista e occupazione nazista rientrarono in pieno nella battaglia propagandistica. E ciascuno dei due fronti si compattò attorno a narrative rigide che ritardarono non solo l’elaborazione della propria storia, ma anche la comprensione e il riconoscimento di quella dell’altro.
Per questo, quindi, ci furono personaggi e avvenimenti dimenticati, perché disturbavano queste narrative semplificate?
Il caso più esemplare in questo senso è senz’altro Hans Egarter, emarginato dagli uni e strumentalizzato dagli altri. Sul giornale dell’ANPI “Il Nuovo Ponte” del 25 aprile 1947 aveva scritto: “Il primo passo sta nel riconoscimento reciproco dei sacrifici compiuti”. È passato molto tempo prima che le sue solitarie parole si avverassero.
E qual è, dunque, l’eredità della Resistenza, o meglio delle Resistenze che hanno avuto luogo nel nostro territorio?
Ci sono ricorrenze importanti e il 25 aprile è una di quelle. Ovviamente esiste una distinzione tra il piano storiografico e quello della ricorrenza. Sarebbe un errore proiettare a ritroso su avvenimenti o personaggi storici le categorie, gli orizzonti culturali e mentali di oggi. Cercare, cioè, quello che storicamente non può esserci. Eppure nel caso della Resistenza nella nostra provincia, la riflessione che deve nascere ancora oggi è sui tanti sacrifici che è costato il percorso che ha portato alla situazione attuale, attraverso nazionalismi, fanatismi, persecuzioni. Un percorso con tanti errori ma che, oltre ogni possibile critica, è stato molto più fortunato di altre realtà di confine simili alla nostra. E da qui la gratitudine per quegli uomini e quelle donne che l’hanno reso possibile.
Es bleibt die Tatsache, dass
Es bleibt die Tatsache, dass sich die italienischen Partisanen und Antifaschisten nach dem Krieg in Südtirol als Ultranationalisten aufgeführt und damit das friedliche Zusammenleben auf Jahrzehnte belastet haben. Egarter wurde von den italienischen Partisanen verfolgt und verleumdet, weil er ein überzeugter Tiroler war. Heute vergießen die "Partisanen" an seinem Grab Krokodilstränen. Übler geht es nicht.