La riforma vista dal Basso
Ringrazio L'Avv. Gianni Lanzinger per l'autorizzazione a pubblicare su queste pagine il suo importante e notevole lavoro
PERCHE’ NO? LA RIFORMA VISTA DAL BASSO
I. Patriottismo costituzionale?
Per alcuni giorni ancora, si vive un'esperienza del tutto nuova nei rapporti
tra la gente e le istituzioni: è come se le grandi affermazioni di principio del
firmamento costituzionale fossero scese in terra e diventate parte della
quotidianità, mescolate con le opzioni personali, le emozioni e le
aspirazioni per il nostro imprevedibile futuro.
È un'esperienza di democrazia diretta che la Costituzione del '48 ci ha
assegnato per via dell'articolo 138 (una procedura di “appello al popolo”
quando la revisione della Costituzione non raccolga in Parlamento la
maggioranza dei 2/3).
La ragione di questo chiavistello popolare imposto ai parlamentari era - ed
è - chiara: un conto è governare (a maggioranza variabile) ed altro è
invece mettere le mani sulla tavola fondamentale del comune patto
sociale.
Tale è infatti la nostra Costituzione che contiene un nucleo irriformabile (la
forma democratica della Repubblica, d'ispirazione autonomista e
solidarista).
Per la parte restante invece la Costituzione è stata pensata come
modificabile, per essere coerente con l'evoluzione della storia e con le
libertà di scelta delle generazioni che si succedono.
Di questo si tratta nella revisione del sistema parlamentare e degli assetti
istituzionali, particolarmente, nei rapporti tra le componenti coessenziali
della Repubblica: Stato, Regioni, Province, Città metropolitane e Comuni.
Allora, se manca “la larga intesa” tra i partiti, che sono i padroni della
dialettica parlamentare, questo atto di sovranità (modificare la
Costituzione), viene demandato direttamente al popolo (art.1 Cost.).
Il referendum è però anche un potente strumento di autorappresentazione
della comunità nazionale/locale, nel quale convergono con pari
ammissibilità tutte ed anche divergenti ragioni.
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Il metodo democratico, essendo un metodo procedurale, non seleziona i
motivi del voto, si limita a registrare la volontà della maggioranza che
assume la forma della democratica volontà popolare, assegnando così ad
ogni elettore il privilegio di poter contare, al di fuori di qualsiasi
appartenenza, nelle scelte di fondo sull'assetto dei poteri.
II. La riforma mancata.
Comunque questo referendum è, a ben vedere, un limitato inserto nel
tessuto costituzionale, dato che proprio le parti della Costituzione non più
al passo col corrente millennio rimangono immutate.
La revisione infatti risente delle preoccupazioni di chi l'ha proposta, ossia il
governo che ha operato per la propria “governabilità”, omettendo di
trattare – e non è carenza da poco – i temi più nevralgici per la presente e
le prossime generazioni: dal tema ambientale (si rammenta che le
principali costituzioni europee hanno come componente essenziale la
carta dell'ambiente), al tema dei rapporti ascendenti non meno che
discendenti con l'Europa (salva la subalternità alle scelte della finanza
pubblica dell'UE come già introdotta dalla riforma Monti all'art. 81 e 97
Cost.), al tema del rapporto tra finanza internazionale, stato sociale e
democrazia in un mondo senza confini, almeno per merci e capitali.
In altri termini, la revisione non comprende l'agenda dei temi più incisivi
sulla vita quotidiana né identifica e controlla i soggetti che dettano
quell'agenda.
Si allude a quella mano invisibile dei processi socio planetari che ha fatto
la sua comparsa a discapito del principio di sovranità popolare. Così per
“l’equilibrio anarchico delle potenze”, come per il “mercato internazionale”.
III. Dallo sfarinamento dei partiti al concentrato di governo.
La revisione è limitata alla dislocazione dei poteri, rafforzando il circuito
governo – parlamento, facendo agio all'interesse nazionale sui poteri
locali, ricostruendo il rapporto gerarchico tra Stato e Regioni, con
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l'abolizione delle Province, salvo mantenerne alcune con la
denominazione di “città metropolitane”.
Gli altri temi della campagna referendaria come la sforbiciata del ceto
politico, il contenimento della spesa (ritenuta improduttiva) per il Senato e
lo stesso rimedio alla lentezza della legislazione (si ritiene essere dovuta
soprattutto allo “sfarinamento dei partiti”), sono stravaganti rispetto alla
centralità ed alla concentrazione del potere legislativo e di governo dello
Stato da affidare al capo dell'esecutivo, senza tante mediazioni.
La questione che sarà affrontata e risolta il 4 dicembre prossimo, è quella
delle forme di partecipazione democratica nell'esercizio della sovranità, ad
iniziare dall'autogoverno delle comunità locali e dunque dal livello primario
della democrazia in cui si esercita quel ministero di “partecipazione di tutti i
lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale, del paese”
(art.3 Cost.).
IV. Visto “dal basso”, a chi giova?
Se si riesce ad oltrepassare i rumori di fondo di questo suk mediorientale
che è diventata talvolta la convulsa propaganda mediatica, rimane che per
meglio capire vantaggi e svantaggi della revisione non si può non mettersi
a guardare “dal basso”, ossia da un punto di vista che coinvolga
direttamente l'autonomia della persona e, subito dopo, quello della
comunità locale e dell'ente esponenziale degli interessi dei cittadini: il
Comune e la Provincia.
La domanda referendaria ne sottintende un’altra: come si collocherà il
nostro Comune e la nostra Provincia nella Costituzione riformata, quali
saranno le “chance” di partecipazione nel nuovo alveo istituzionale?
V. Una riforma oligarchica?
In primo luogo, è noto che la riforma sostituisce al circuito bicamerale della
produzione della legge e del rapporto fiduciario / di controllo nell’attività di
governo (ritenuti lenti e complicati), un rafforzamento del potere centrale a
scapito del bilanciamento parlamentare e del decentramento territoriale
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del potere alle regioni – ordinarie, ma senza eccessive illusioni, anche per
le speciali.
Sono però state rilevate alcune criticità quanto alla revisione costituzionale
degli organi.
Infatti.
A.- Quanto al Senato, si ritiene che esso diverrà una ibrida figura collocata
tra una funzione para-rappresentativa di enti locali e quella di terminale di
farraginose procedure di conciliazione inter-parlamentare.
Certo è che esso non sarà un autorevole organismo di rappresentanza e
di interlocuzione tra lo Stato e le autonomie regionali, tanto più necessario
in relazione ad una proiezione europea della normativa a pluri-livello,
quale è comunque quella dell’Italia.
B.- La Camera, d’altra parte, con la crisi dei partiti che non controllano più
le procedure di selezione né dei bisogni sociali, né della classe dirigente,
non sarà rappresentativa della pluralità delle opzioni del corpo elettorale,
dato che con la connessa riforma del sistema elettorale (Italicum)(la vera
madre di tutte le leggi, per essere la legge che compone il corpo
legislativo), i parlamentari eletti saranno decisi non dalla cernita di qualità
compiuta dagli elettori, bensì dal rapporto fiduciario – e di fedeltà – con i
signori delle tessere.
Con il sistema premiale dell’Italicum si potranno inoltre avere governi,
“fiduciati” da meno del 30% degli elettori e, dunque, leggi decise a
prescindere dalla volontà del 70% del corpo elettorale: un “unicum” in
Europa.
A questo punto è da porsi la domanda sul “cosa ci guadagna” la nostra
autonomia dallo stringersi della cinghia dell’autogoverno locale nel resto
del Paese.
VI. Quali limiti saranno posti alla nostra autonomia dalla riforma di Renzi?
La questione centrale è dunque: quali vantaggi si profilano per l’autonomia
speciale, in un sistema istituzionale che, con rovesciamento del principio
di sussidiarietà verticale, afferma il principio egemonico dell’interesse
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nazionale, interpretato da un uomo solo al comando, mediante lo
smantellamento dell’assetto costituzionale del 2001 – neppure
completamente attuato – di una “Repubblica delle Regioni” come base e
incentivo ad una “Europa delle Autonomie”.
a.- Non basta l’ancoraggio internazionale. La Provincia Autonoma di
Bolzano – e dunque, come è chiaro, “il partito solo al comando”, come
antidoto al rovescio centralistico dell’assetto dei poteri, si è avviata nel
vicolo cieco del “vincolo internazionale” fornito dall’accordo De Gasperi –
Gruber.
Mediante un imponente investimento mediatico si sostiene la tesi che
l’autonomia speciale, è “specialissima”, per salvaguardare la minoranza di
lingua tedesca e ladina.
Viene così allestita una piccola arca di Noè in un diluvio statalista.
Chi però valuti, con intenso attaccamento alle ragioni dell’autonomia, la
qualità e la dimensione dell’autonomia provinciale, dovrà serenamente
concludere che essa è assai più estesa della stringata piattaforma
dell’accordo De Gasperi – Gruber, dove peraltro viene affermato il
principio di parità tra i gruppi e dove non è affatto prevista la vigente
latitudine dei poteri legislativi provinciali.
Basti pensare che il sistema proporzionale nel pubblico impiego e nella
distribuzione delle risorse, va ben oltre “l’ancoraggio internazionale” come
unanimemente riconosciuto anche nei lavori preparatori al secondo
Statuto di autonomia.
L’accordo di 70 anni fa è poi stato surclassato dalla storia della formazione
dell’Europa unita ove la vera supremazia nella tutela delle minoranze, è
assegnata ai Trattati ed alle Carte dei diritti, così che ben difficilmente si
potrebbe credere che l’accordo De Gasperi – Gruber faccia parte del
panorama costituzionale del nostro Paese, sia per difetto (di competenze)
che per eccesso (di “tutele”).
C’è da credere dunque, che l’ancoraggio internazionale dell’autonomia sia
assai meno garantista che non la cultura e la pratica diffusa di una
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Repubblica delle autonomie in un Europa senza confini, soprattutto perché
l’autonomia è un bene indivisibile e non garantisce la tutela di un solo
gruppo linguistico, più di quanto non garantisca, secondo principi di
universalismo democratico, la partecipazione di tutti alla vita politica e
sociale della nostra Provincia/Regione.
Ma la riforma Renzi/Boschi non si ispira a principi di sussidiarietà
comunitaria e viene da credere che tanto più nel nostro paese si logora e
si stravolge il “genere del regionalismo”, tanto più verrà sospettata come
privilegio la “specie dell’autonomia differenziata” per il solo Sudtirolo.
b.- Non basta l’amicizia con un uomo solo al comando, quando viene
smantellata la cultura del regionalismo.
Per coerenza, il progetto di smantellamento della Regione ordinaria – e
soppressione dell’ente di vasta area quali sono le Province – concentra sul
Governo un potere che la Costituzione oggi distribuisce sul territorio (le
competenze concorrenti tra Stato e Regioni vengono tutte assorbite dai
poteri centrali).
Ma tale confluenza di poteri sul leader che guida il Governo – con
inevitabile commistione tra leadership di governo e leadership del partito
che lo sostiene – presenta aspetti di rischio nell’equilibrio costituzionale, in
quanto il leader risulta essere privo di contrappesi che ne moderino le
scelte e ne integrino le lacune, secondo la brillante esposizione del
politologo Sergio Fabbrini (“Addomesticare il principe - Perché i leader
contano e come controllarli”).
C’è chi parla in proposito di un capo di governo ipertrofico, anche perché il
rapporto fiduciario che il Governo intrattiene col Parlamento, diventerà una
questione interna ad un ceto dirigente, sempre più appartato rispetto al
consenso popolare.
Con la Riforma dell’Italicum, infatti, nella Camera Deputati, prevarranno gli
eletti del partito vincente, con un consenso irrisorio di meno del 30% dei
votanti e sarà un consesso quasi oligarchico, nominato per investitura del
medesimo partito che governa, mediante la previa scelta di capilista nella
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compagine delle candidature, piuttosto che per rappresentanza degli
elettori.
Quale vantaggio ne avrà la Provincia di Bolzano da una revisione
costituzionale che canalizza il consenso verso una ristretta oligarchia, a
parte quello, del tutto effimero, di poter trattare - e contrattare - con un
uomo solo…. se amico?
c.- Si restringono o no i limiti statutari delle competenze provinciali?
Scendendo però nella verifica di dettaglio nei rapporti tra Statuto di
autonomia e revisione costituzionale, i conti di un appoggio al testo di
legge elaborato da Renzi e Boschi, da parte della Giunta Provinciale, non
tornano.
In primo luogo, sfuggono le ragioni per cui una Provincia che legifera “in
armonia con la Costituzione e i principi dell’ordinamento della Repubblica”
(artt. 4 e 8 Statuto d’Autonomia), dovrebbe preferire, a una Costituzione di
impronta regionalista, una Costituzione di opposta impronta centralista
quale è quella su cui ci si esprimerà il 4 dicembre prossimo.
Del resto, è argomento non secondario quello per cui è del tutto
improbabile che la revisione dello Statuto di Autonomia che conseguirà
per trascinamento alla revisione della Costituzione, avvenga secondo
modalità schizofreniche, riducendo le autonomie in Costituzione ed
ampliando l’autonomia statutaria.
Oggi, l’imperativo del Governo è far approvare una riforma governista
agevolando il consenso delle “speciali”, escludendole – per tempo limitato
– dall’applicazione della Costituzione emananda.
Già la cautela di porre le autonomie speciali al di fuori della riforma,
sfasando i tempi della riforma costituzionale rispetto quelli della revisione
degli statuti, ha il senso di una “excusatio non petita”, per il peggioramento
del nuovo contesto autonomistico rispetto a quello in vigore.
Infatti dal 5 dicembre, se approvata, la Costituzione – salva la improbabile
ipotesi che i limiti costituzionali ed ordinamentali di cui agli artt. 4, 5, 8 e 9
dello Statuto di autonomia siano descritti in articoli resuscitati di una
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Costituzione abrogata – restringe, fuori di ogni ragionevole dubbio, l’area
della nostra autonomia in favore della prevalenza dello Stato.
Del tutto fuori dal mondo è poi che la revisione degli Statuti delle Regioni e
delle Province a statuto speciale – incombenza che occupa anche la
nostra Provincia – si possa ispirare alla vecchia Costituzione, piuttosto che
alla nuova, visto anche il dettato della Legge Boschi: ”Art. 39 disposizione
transitoria punto 13 … a seguito della suddetta revisione, alle medesime
Regioni a Statuto speciale e Province autonome si applicano le
disposizioni di cui all’art. 116 terzo comma della Costituzione, come
modificato dalla presente Legge Costituzionale.”
d.- La permeabilità della autonomia statutaria all’intervento statalista;
esempio: riforma Monti sul pareggio di bilancio.
Qualunque vantaggio si aspetti il “partito solo al comando” in Sudtirolo –
salvo l’autodeterminazione e/o la totale separatezza tra regime statutario
provinciale e regime costituzionale italiano, palesemente improbabile –
dall’adesione alla riforma di Renzi e dunque ad un regime a competenze
più accentrate ed a risorse meno distribuite nell’intero contesto nazionale,
si tratterrebbe comunque di un grosso rischio, essendo del tutto plausibile
che l’ispirazione che dovesse prevalere a Roma, si farà sentire anche a
Bolzano con l’argomento, dialetticamente apprezzabile, che, comunque,
questo stravolgimento culturale dal regionalismo al centralismo era
condiviso anche dal partito monoetnico tedesco.
Agli altri rimarrebbe il merito di essersi battuti per evitare quello che una
scuola ampiamente condivisa di costituzionalisti, definisce “lo
stravolgimento della Costituzione italiana”.
Con il Referendum si dovrà decidere di trasferire allo Stato in via esclusiva
“il coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario”, mentre al
Governo spetta di proporre leggi dello Stato per intervenire in materia
anche di competenza regionale “quando lo richiede la tutela dell’unità
giuridica ed economica della Repubblica, ovvero la tutela dell’interesse
nazionale”.
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D’altra parte, dopo l’esperienza, in verità poco segnalata in sede locale,
della prevaricazione che la riforma Monti della Costituzione del 2012 (ad
artt. 81 e 97 Cost.) ha imposto sull’autonomia finanziaria e di bilancio di
tutti gli enti territoriali (tutti perdenti rispetto alle determinazioni in materia
impartite dagli organi UE), dovrebbe essere chiaro che gli Statuti delle
autonomie sono permeabili alla grande, rispetto al principio di
“coordinamento della finanza pubblica e del sistema tributario nazionale”,
(competenza legislativa che da essere concorrente tra Stato e Regioni
verrebbe assunto in via esclusiva dallo Stato secondo l’art. 117 Cost.
novellato).
Non pare così essere prevedibile che nella revisione dello Statuto di
autonomia, operato d’intesa tra Provincia/ Regione e Stato (nessuno
ancora può dire attraverso quali alchimie ciò possa avvenire), la nostra
Provincia, possa lucrare di una zona franca, nell’ambito dell’autonomia
finanziaria e in quella tributaria.
La Legge Boschi non fa sconti né prevede eccezioni.
La posizione della Giunta provinciale, già protagonista di un defatigante
contenzioso costituzionale sul tema, oggi, per puro paradosso, si schiera
con lo Stato centrale rafforzando i suoi poteri di supremazia ed
innescando ulteriori motivi di controversia.
A ragion veduta? Non è dato di sapere.
Dal resto, se l’argomento per il “si”, è quello di ridurre il contenzioso in
Corte Costituzionale tra lo Stato ed un regionalismo a geometria variabile,
come può pensare la nostra Giunta di essere esonerata dal rimedio della
“semplificazione” e della ”accelerazione”, e come può distanziarsi,
aderendo all’ispirazione della riforma, da una cultura – antipolitica –
secondo cui il regionalismo non è inteso come celebrazione di un rito
democratico, ma come complicazione e rallentamento del passo svelto (?)
del Governo?
Semplificare come unificare al centro, come affermare il dirigismo statale
sui servizi e la accelerazione delle grandi opere e della liberalizzazione dei
fondamentali dell’economia.
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Del resto, la concentrazione delle competenze nell’attività dello Stato
(Governo e Ministeri) ed il potere trasversale di avocazione da parte del
Governo centrale di competenze non proprie, in ragione di un interesse
nazionale dagli incerti contorni o di un ancor meno definibile interesse per
l’unità giuridica ed economica della Repubblica, come si concilia con il
principio di sussidiarietà?
La Riforma Renzi (non a caso prende titolo dal Capo del Governo e dal
Ministro e non da rappresentati del Parlamento come sarebbe conforme
alla procedura parlamentare di revisioni costituzionale, art. 138),
acquisisce allo Stato centrale persino le competenze in materia di
“ordinamento dei Comuni e città metropolitane” sottraendole alla
competenza concorrente con le Regioni, con le quali lo Stato (oggi)
interloquisce limitandosi alla formulazione dei principi fondamentali; così
anche per le discipline giuridiche del lavoro alla dipendenza delle
pubbliche amministrazioni, così per le diposizioni comuni e per quelle
generali sul governo del territorio etc.
Insomma, nella sommersione statalistica delle autonomie regionali, la
PAB, come oggi è rappresentata, immagina di essere l’unico palombaro.
Inoltre, se le Regioni sono parte coessenziale della Repubblica e dunque,
partecipano ed interpretano in armonia con la nazione, l’interesse
nazionale, perché escluderle nella valutazione di tale interesse incidente
nel proprio territorio?
Si tratta, come noto, delle grandi opere, dei sistemi integrati di
comunicazione, delle linee di trasferimento dell’energia o delle ricerche di
fonti energetiche sottomarine, insomma materie tutte strettamente
connesse con la tutela del territorio e dell’ambiente di cui, in primo luogo,
le comunità locali sono custodi e rappresentative degli interessi diffusi
della popolazione.
Oggi la Costituzione presidia l’autonomia degli enti territoriali, cui viene
direttamente attribuito potere di autogoverno; con la riforma essi diventano
più subalterni allo Stato centrale che non suoi interlocutori in una relazione
di leale collaborazione.
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L’intervento del Governo potrà esercitarsi sul territorio regionale anche
all’insaputa dell’ente esponenziale delle popolazioni e persino in palese
contrasto con l’interesse di queste, fino ad una sorta di occupazione del
territorio secondo una interpretazione soggettiva dell’interesse nazionale,
tutt’altro che neutrale bensì rimessa ad una compagine politica che
formalmente assume la maggioranza nel paese ma, come si è visto,
potrebbe essere una “maggioranza falsificata”.
e. Il referendum prosciuga l’acqua di coltura delle autonomie.
La revisione costituzionale se sarà approvata con il sì del corpo elettorale,
prosciugherà l’acqua di coltura di ogni forma di autonomia istituzionale,
con effetti deleteri sulla stessa nostra autonomia speciale.
Questa infatti ha avuto una importante dilatazione con la riforma della
Costituzione del 2001 – testo in vigore - che consente alla Provincia, ben
oltre le attribuzioni dello Statuto del ’72, di appropriarsi di ogni condizione
di miglior favore rispetto al godimento della propria autonomia, che sia
condivisa dalle Regioni ordinarie.
Tutte le autonomie speciali dunque utilizzano questa clausola di
galleggiamento nel senso che crescendo il livello delle competenze delle
Regioni ordinarie al di sopra di quello delle speciali, anche queste
beneficiano della spinta verso l’alto, aumentando le proprie risorse
giuridiche ed economiche.
Ovviamente il parametro vale sia in salita che in discesa, cosicché
abbassandosi l’autonomia delle Regioni si contrae anche la nostra,
perdendo tutto quanto (ed è molto) non sia previsto dallo Statuto.
Questa clausola felice crea un sistema di vasi comunicanti nell’intera rete
regionale, facendo convergere tutto il sistema verso un sostegno solidale
e reciproco.
Vi è, ad esempio, quale conseguenza di questo principio, la deroga ad un
limite importante per la normazione statutaria e cioè quello “delle norme
fondamentali delle riforme economico-sociali della Repubblica” (art. 4, 5,
8, 9. Stat. Aut.).
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La regola è dunque che la sussidiarietà dilata i confini dell’autonomia.
Ma se lo Stato avoca a sé poteri già propri delle Regioni, perdono le
Regioni e perde anche la Provincia autonoma.
L’impoverimento della rete delle autonomie, provoca una chiusura
idraulica per le competenze nel Sudtirolo e nel Trentino.
Una perdita però ancora più irreversibile, sarebbe, con la vittoria del sì,
l’abbandono nel Paese di quel comune sentimento di condivisione del
regionalismo come plebiscito quotidiano che sostiene nella coscienza
collettiva, le istituzioni democratiche autonomistiche e che ha orientato, sin
dall’approvazione del secondo Statuto, anche il Parlamento nazionale ad
aprirsi alle richieste della cultura democratica, come si esprimeva Altiero
Spinelli nel convegno de “Il Mulino” del 4 novembre 1961 a Bolzano,
promosso da Lidia Menapace e da Giuseppe Farias.
“Cercate gli alleati non fra le forze più conservatrici d’Italia, ma fra le forze
che vogliono un rinnovamento della democrazia in Italia, e per questa
ragione saranno aperte alla vostra richiesta che è di rinnovamento
democratico”.
La comunità sudtirolese non può perdere il contatto solidale ed
amichevole della cultura regionalista, dentro e fuori i confini del nostro
territorio.
VII. Da ultimo: una riforma autoreferenziale.
La proposta di riforma e la sua approvazione parlamentare è stata indotta
da un Governo che non ha avuto né il conforto di ampia rappresentanza
della popolazione (corpi intermedi, comunità scientifica, enti locali), né il
coinvolgimento di quote significative della rappresentanza parlamentare.
Si intende così forzare l’approvazione della Riforma avendola dapprima
sottoposta ad un Parlamento scarsamente legittimato dal voto popolare
(cfr. sentenza Corte Costituzionale…) e quindi, legato alle sorti del
Governo ove gioca un ruolo indistinto il capo del partito, nella medesima
persona del capo del Governo.
La riforma risulta così molto segnata da un riflesso autoreferenziale.
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In alternativa, secondo una concezione democratica di formazione politica
dell’opinione e della volontà dei cittadini/cittadine, se intendiamo la riforma
della Costituzione come prassi dell’autodeterminazione civica, essa non
potrà che avere per modello il dialogo con e tra le componenti della
società.
Per questo l’occasione di riformare la Costituzione non va sprecata.
Bolzano, 22 novembre 2016.
- Gianni Lanzinger -