Culture | Texte

Il delta

Kurt Lanthaler racconta le storie di una vita itinerante che nasce nel delta del Po e attraversa il paese e i decenni; traduzione dal tedesco di Stefano Zangrando.

Ringraziamo Edizioni Alphabeta per il rilascio di alcuni testi e capitoli di libri che pubblichiamo con piacere qui durante i giorni festivi, inziando con "Il delta" di Kurt Lanthaler nella traduzione di Stefano Zangrando.

 

"Le storie della vita di un certo Fedele Conte Mamai, trovatello del delta del Po, cresciuto su un chiatta in mezzo al grande fiume. Storie di anguille e di acque alte, di una vecchia valigia di cartone, di baccalà e babà, bresaola e bottarga e del piano e degli ingredienti della vecia col pist. Storie di Maierlengo, del paese dietro l’argine, e del paese senza nome oltre la diga di montagna, delle grandi imprese degli ingegneri e delle imprese ancora più grandi della natura. Storie di vite e di migrazioni, di lingue e di proverbi. Kurt Lanthaler* racconta la storia e le storie di una vita itinerante che nasce nel delta del Po e attraversa il paese e i decenni, passando per pianure e per monti per poi tronare al mare. E racconta cinquant’anni lotta tra uomo e natura, di inutile sviluppo, personale e civile, ma anche cinquant’anni di vira, di passioni, dolori, malinconie."

 

[ 2 ] [ L’osteria | Un rituale ]

Vedete, Fedele Conte Mamai e di nuovo qui, dico. Ci e voluto un bel po’ di tempo, era sempre in giro. E quasi irriconoscibile. E tutto e rimasto come una volta, vedo. La piazza, l’edicola, la nebbia e il vento. L’argine, i canali. E di buoi non ce ne sono più già da un pezzo, da nessuna parte. L’ultimo lo vidi non meno di quindici anni fa. Attraversava la strada davanti a uno zoo. Non si capiva se andava o veniva. E da allora mi chiedo da dove arrivino mai tutti i guanciali brasati. Per l’appunto. L’osteria e ancora quella vecchia. Buia, come in passato. E un po’ umida, come allora. Non così inospitale.

La porta era aperta. Scesi i tre scalini e mi guardai intorno. La volta, i tavolini, il banco corto, basso, eternamente bagnato. Le sedie erano sparse qua e là, come dopo una rissa. Il locale vuoto, come se i carabinieri avessero portato via tutti in una volta. Sul piccolo scaffale, qualche bicchiere. E sopra ogni cosa muffa, polvere, intonaco scrostato. Bene, dissi, attraversai il locale, passai nel retro, lì c’erano i resti cinerei di un falò, freddi. Cos’e successo qui?, dico, sarebbe una novità.

Mi sedetti al tavolo nell’angolo in fondo, il tavolo per chi arriva dopo. Lo assesto un po’ finché non traballa quasi più, poso la valigia accanto a me.

Oste, sono di nuovo qui. I ga iga i gai.

Sapete, l’osteria non e mai stata troppo cordiale con gli ospiti, e l’oste, se possibile, ancora meno. Ti portava un bicchiere di vino sul tavolo senza bisogno di dir niente. O mezzo litro. Sempre di quello disponibile al momento. Di caffe ce n’era soltanto nei casi veramente eccezionali, funerali o simili. Due o tre volte l’anno. Quando oltre agli ospiti abituali si trovava all’osteria anche quella parte del paese e dei dintorni che altrimenti ci girava alla larga sprezzante. Gli iniziati, dal canto loro, girano alla larga dal caffe. Di grappa se ne trova sempre, basta uno sguardo muto. L’accenno della mano verso lo scomparto in basso. Un cugino lontano che distillava senza tanto badare alla legge, uno che aveva capito e preso sul serio a tal punto la propria occupazione che ci aveva lasciato le penne.

Qualunque cosa servisse l’oste, che uno l’avesse ordinata o no, il ringraziamento era sempre il seguente: che bon caffè caffè. Che buon caffe avete fatto anche oggi, oste. E lui si guarda intorno nella semioscurità dell’osteria, guarda la sua eterna clientela abituale e dice: I ga iga i gai. Hanno legato i polli. E allora parte un giro di risate. La volta dopo il gioco si ripete. Un rituale. Più che un passatempo, un indolente segnatempo. Dopo la madre, alla fine era deceduta anche la vecchia zia. Una cuoca arzilla, che rimaneva nascosta dietro i fornelli per sottrarsi all’andirivieni dell’osteria. Non voleva vedere nulla, saperne nulla, cucinava in modo egregio e mori di afflizione. Da quel momento in poi la cucina si scaldava solo quando ci andava uno degli ospiti. Il che poteva accadere, soprattutto nelle notti che promettevano di allungarsi. Posto che anche tardi dal delta entrando dalla porta posteriore. E aveva incrociato un’anguilla. Il che poteva benissimo capitare, soprattutto nelle notti grigie, povere di luna. Nelle ore successive la si affrontava con raccoglimento, l’anguilla. E la brace del camino su cui quella si contorceva.

L’anguilla. Hai abbandonato questo posto per via dell’anguilla. Sei tornato per via dell’anguilla. Mar dei Sargassi e ritorno. Per uno che e nato nel delta del Po, la via più ovvia. 

 

*Kurt Lanthaler è nato nel 1960 a Bolzano. Scrittore italiano di lingua tedesca, vive a Berlino e Zurigo. Oltre alla serie di romanzi gialli con protagonista Tschonnie Tschenett (Diogenes/Haymon) scrive romanzi, racconti, poesie, libretti, testi teatrali e sceneggiature. Ha tradotto in tedesco romanzi di Peppe Lanzetta e Roberto Alajmo. 

Il delta, Traduzione dal tedesco di Stefano Zangrando, Edizioni Alphabeta 2015, 160 pp. ca., 13,5x20,5 cm Euro 14,00 ISBN 978-88-7223-239-2