“Quel malessere mi ha salvato la vita”
“Ho avvertito molto chiaramente che questa non era la mia volta. Non è stata paura quella che ho provato, ma sentivo che la montagna mi respingeva. Dovevo scendere”. Così, per la prima volta, Tamara Lunger racconta l’esperienza del K2, una spedizione caratterizzata da un epilogo tragico per la morte di cinque alpinisti. Lo spagnolo Sergi Mingote, il bulgaro Atanas Skatov, il pachistano Muhammad Ali Sadpara, l’islandese John Snorri e il cileno Juan Pablo Mohr, compagno di cordata di Lunger. Dopo aver rinunciato all’ascensione invernale della “grande regina”, il K2 - riuscita invece a un team di dieci nepalesi -, la 34enne alpinista altoatesina è rientrata in Italia, e si trova ora in quarantena nella sua casa di Cornedo all’Isarco.
salto.bz: Lunger, un anno fa l’incidente con Simone Moro sulle montagne del Karakorum, questa volta il prezzo da pagare è stato più salato: la perdita del suo compagno di scalata. In che modo l’ha segnata la spedizione che lei ha definito la più brutale di tutte?
Tamara Lunger: Mi ha lacerata. Tutto si è rivelato complicato fin dall’inizio. Con Alex (Gavan, il primo compagno di cordata di Lunger nel tentativo invernale al K2, ndr) litigavamo spesso e a un certo punto gli ho detto che sarebbe stato meglio continuare su strade separate. Lui decide di rinunciare alla salita. Poi la morte di Sergi, scivolato mentre stava scendendo dal campo 1 al campo base. Dovevo in qualche modo elaborare tutto questo, perciò volevo restare. Non era ancora arrivato per me il momento di gettare la spugna.
Con Mohr c’è stata subito sintonia?
Ci siamo capiti subito con JP. Era come un’anima gemella. La morte di Sergi ci aveva unito molto, ci facevamo forza a vicenda. Era molto importante per entrambi poter contare sull’altro. Abbiamo parlato tanto, pianto insieme, riso anche, eravamo diventati praticamente inseparabili. È nato un rapporto speciale, tanto che ho pensato a lui come a un compagno di cordata anche per spedizioni future. Ancora non ci credo che questa vita si sia spezzata così presto. Perdere cinque alpinisti è stato terribile, ma niente come la morte di JP mi ha spaccato il cuore.
Dall’inizio alla fine della spedizione mai un momento ho provato una sensazione di pace. La testa viaggiava veloce, la tristezza mi logorava, la preoccupazione pure, non ero mai davvero tranquilla.
Ho capito che non avrei raggiunto la cima. E l’ho accettato
L’alpinista pachistano Nazir Sabir ha accusato i nepalesi di aver recuperato le corde durante la discesa dalla vetta, cosa che potrebbe aver compromesso la sicurezza di John Snorri, Ali Sadpara e Juan Pablo Mohr. I nepalesi hanno assicurato che tutte le corde erano state lasciate al loro posto. Cos’è accaduto davvero lassù?
Posso riferire solo ciò di cui sono a conoscenza e cioè cosa è successo fino al campo 3. Ho parlato con i nepalesi e loro mi hanno confermato che avevano fissato tutto. Sajid, il figlio di Ali, invece mi ha detto che non dappertutto c’erano corde. Ma io lì non ero presente, perciò non posso esserne sicura. Non riesco a immaginarmi, comunque, che possano aver rimosso le corde.
Quand’è che è scattata in lei la decisione di rinunciare alla vetta?
Al campo base, il giorno prima del “summit push”, il tentativo di vetta, non stavo bene con lo stomaco, vomitavo, avevo la dissenteria. Ho cercato di riprendermi in fretta ma già quando sono partita le forze hanno via via ricominciato ad abbandonarmi, più salivo peggio mi sentivo. Ero ormai a tappeto agli ultimi due campi, non avevo mangiato nulla e sapevo che non ce l’avrei fatta.
Anche la motivazione veniva meno?
Esatto, allora ho capito che non avrei raggiunto la cima. E l’ho accettato. Peraltro avevo ancora da superare 1.200 metri di dislivello, avrei dovuto camminare di notte e con quel freddo sarebbe stata veramente molto dura.
Rispetto al mio stato d’animo attuale, dopo tutto quello che è successo, per me con gli ottomila in inverno è finita qui
Per una top climber, del resto, conquistare una vetta del genere non è solo questione di sogno da realizzare. Ci sono anche il prestigio, i soldi degli sponsor…
Sì ma vede, stavolta più di altre ho capito che dovevo ascoltare i segnali che arrivavano nella mia direzione. Ho avvertito molto chiaramente che questa non era la mia volta. Non è stata paura quella che ho provato, ma sentivo che la montagna mi respingeva. Dovevo scendere. Già da tempo, poi, mi portavo dietro una forte tosse, che mi provocava dolore alle costole, non ero mai stata così male ma tutto questo, ho realizzato dopo, aveva un perché. Sono convinta che quel malessere mi abbia salvato la vita.
Ne ha abbastanza o l’invernale al K2 resta un’impresa da ritentare?
Rispetto al mio stato d’animo attuale, dopo tutto quello che è successo, per me con gli ottomila in inverno è finita qui. Certo mi rendo conto che non si debba mai dire mai, ma adesso ho solo la necessità di riacquistare le forze e metabolizzare quest’ultima esperienza che mi ha ferito molto e che non sarà facile lasciarsi alle spalle.