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I russi, i russi, gli americani ...

Mark Pavelich, uno dei migliori giocatori mai arrivati dagli States nell'Hockey Club Bolzano, 45 anni fa fu uno dei protagonisti dell'incredibile Miracle on Ice tra U.S.A e U.R.S.S. Ecco la sua storia attraverso il racconto dei compagni.
mark pavelich
Foto: Hcbfans.net
  • L’asfalto è mosso da innumerevoli curve. L’autista è lucido ed attento. Ha gli occhi sulla tormentata strada di montagna e le orecchie accarezzate dalle morbide note di una chitarra.

    Il chiarore di una struggente luna piena si riflette tutt’attorno, agevolando la sua guida. Il pullman è sulla via del ritorno. Ed i passeggeri riposano profondamente, dopo aver speso molto. In una delle loro innumerevoli battaglie della stagione.

    C’è solo un uomo che ha lo sguardo rivolto verso quella luna quasi abbagliante. Mentre la guarda, mastica con calma le strofe di “Mentre la guarda, mastica con calma le strofe di “Blowin’ in the wind”.

    “How many roads must a man walk down
    Before you call him a man?
    Yes, 'n' how many seas must a white dove sail
    Before she sleeps in the sand?
    Yes, 'n' how many times must the cannon balls fly
    Before they're forever banned?
    The answer, my friend, is blowin' in the wind,
    The answer is blowin' in the wind”…
    “Quante strade deve percorrere un uomo
    prima di essere chiamato uomo?
    E quanti mari deve superare una colomba bianca
    prima che si addormenti sulla spiaggia?
    E per quanto tempo dovranno volare le palle di cannone
    prima che vengano bandite per sempre?
    la risposta, amico mio, se ne va nel vento,
    la risposta se ne va nel vento”…

    L’uomo scandisce le parole dell’ultima strofa con infinita dolcezza, chinando piano piano il capo. Fino a permettere ai suoi riccioli ribelli di lambire il suo amato strumento. Questo vero e proprio inno alla pace, scritto dal leggendario Menestrello di Duluth, Bob Dylan, trovò spazio in tempi non sospetti nell’Lp “After the Gold Rush”, capolavoro di mezzo secolo fa.

    Come l’amatissimo Dylan, anche il nostro appassionato chitarrista veniva dal Minnesota. Terra di confine, immersa in una natura ruvida e rigogliosa. Costellata da oltre diecimila laghi. Dove il popolo, radioso ma riservato, ama nascondersi. Per rigenerarsi nei suoi day off.

    All’inseguimento della stessa pace. Che Dylan contribuì a mantenere, con la sua ispirazione. Il pullman è arrivato oramai a destinazione e l’uomo ha già riposto la sua chitarra nella custodia. Con un gesto che gli è oramai abituale, scarica velocemente i suoi effetti personali dalla pancia del automezzo e, senza dire una parola, si congeda dal resto della squadra, con un cenno della mano.

    La ricostruzione di questo episodio, corroborata da un pizzico di doverosa fantasia, è stata possibile grazie ai ricordi ed agli aneddoti raccolti tra ex compagni di quella squadra. Che, a cavallo tra il 1987 ed il 1988, conquistò il suo decimo scudetto. Quello della stella. Uno dei prestigiosi simboli della discendenza, cucito sulle casacche biancorosse dell’Hockey Club Bolzano.

    L’uomo con la chitarra? Vi chiederete. Altri non era se non il grandissimo Mark Pavelich.

  • Mark Pavelich: Qui con la maglia del Bolzano Foto: A.S.
  • “Sul pullman, Mark era sempre seduto davanti a me - ci rivela Jimmy Boni, uno dei quattro componenti del pacchetto difensivo di quel Bolzano, assieme a Gino Pasqualotto, Robert Oberrauch e Norbert Gasser -. Amava suonare la sua chitarra. Ed amava ovviamente Bob Dylan. 

    Era un uomo umile, molto tranquillo. Che stava sempre sulle sue”.

    A dare sostanza a questo ricordo di Boni, giungono in soccorso le fotografie pubblicate in quella stagione dalla stampa locale. Specialmente quelle che immortalarono i giocatori nei momenti liberi. Non vi è alcuna traccia di Mark Pavelich. Obbligato dal protocollo a mettersi in posa, solamente in occasione delle foto ufficiali.

    “È stato un compagno di squadra incredibile - prosegue Jimmy Boni nel suo racconto - probabilmente il miglior giocatore two way (quando le qualità difensive eguagliano quelle offensive, nda) mai apparso in Italia. Un giocatore con uno stile di gioco unico, che ho amato molto. Perché lui era davvero speciale, un grande”.

    Nato il 28 febbraio del 1958 ad Eveleth, in territorio Dakota, dai nativi americani che prosperarono lungo le rive del Lago Superiore, Mark Thomas Pavelich ereditò da alcuni suoi avi le sue ancestrali origini indiane. Che manifestò fino in tenera età. Con una condotta inequivocabile.

    Fin da bambino, infatti, a Mark piacque trascorrere intere giornate nel bosco. Imparando anche a muoversi in canoa, per raggiungere gli specchi d’acqua più tranquilli, dove poter pescare. Da adolescente, il contatto con l’hockey su ghiaccio fu una folgorazione per lui. Come per milioni di altri ragazzi, d’altronde, in Nord America.

    Dopo essersi fatto le ossa nelle giovanili della franchigia universitaria di casa, i Minnesota Bulldogs Duluth, Pavelich decise di abbandonare gli studi quando nel 1979 lo staff della Nazionale mise gli occhi su di lui.

    A volerlo con sè, sul pancone degli Stati Uniti, un altro compatriota: Herb Brooks. Vero e proprio sergente di ferro di Saint Paul, la città gemella di Minneapolis.

    Il ruvido coach del Minnesota selezionò per le Olimpiadi di Lake Placid del 1980 un distinto gruppo di giocatori. Poche stelle ed un pacchetto di gregari disposti a tutto. E lo plasmò a modo suo, privilegiando il bastone alla carota.

    Qualche esempio?

  • La maglia degli Usa: Pavelich giocò a lunga con la nazionale americana Foto: A.S.
  • Dopo un'amichevole preolimpica, giocata svogliatamente e persa in malo modo, obbligò la sua squadra a sostenere una pesantissima seduta supplementare. Al buio, e senza rifiatare un solo istante. Due ore d’inferno.

    Qualche giocatore collassò letteralmente sul ghiaccio, altri supplicarono il coach di poter espiare quella punizione in altro modo. Herb Brooks non volle sentir ragioni. E non si fece impietosire da nulla e da nessuno. In questo modo fece subito capire ai suoi giocatori che certe leggerezze non le avrebbe ammesse.

    Così facendo, riuscì a creare lo spogliatoio perfetto ed a forgiare la squadra di cuori impavidi, che aveva elaborato nella sua testa. Presupposti di quella trionfale galoppata, verso la medaglia d'oro olimpica di Lake Placid.

    Che, a tutti gli effetti, verrà per sempre ricordato come il celeberrimo "Miracle on Ice".

    “I russi, i russi, gli americani...”.

    Lucio Dalla scrisse la sua meravigliosa “Futura” dopo un viaggio a Berlino. Salì su un taxi che lo condusse lungo il Muro, fermandosi solo al Check Point Charlie, il passaggio blindato. Tra Berlino Est e Berlino Ovest.

    Sorvegliato da russi. Ed americani. Un dettaglio, che suggestionò la creatività del grande cantautore bolognese. Una ruspante similitudine, utile solo per riportarci al titanico confronto di Lake Placid.

    Quello che oppose Stati Uniti d’America ed Unione Sovietica. Primo match del girone finale del torneo olimpico. Uno dei confronti che hanno contribuito a delineare la storia contemporanea dell’hockey su ghiaccio.

    Esattamente 45 anni fa ... 

    22 febbraio 1980: Jim Craig vs. Vladislav Tretiak. Mike Eruzione vs. Sergej Makarov. Herb Brooks vs. Viktor Tikhonov.

    1° tempo: Vladimir Krutov (0-1); Buzz Schneider (1-1); Sergej Makarov (1-2); Mark Johnson (2-2) in extremis, al 19’59”!

    Ad inizio 2° tempo Vladimir Myshkin subentrò a Vladislav Tretiak. Un cambio che quasi costò i gradi, ed il ruolo di allenatore, al severissimo Viktor Tikhonov.  Myshkin non sfigurò ed Aleksandr Malcev infilò Jim Craig (2-3).

    Nel 3° tempo: il pareggio di Mark Johnson (3-3); infine, su assist illuminante di Mark Pavelich, il gol decisivo di Mike Eruzione (4-3). Difeso, fino alla sirena finale, da un immenso Jim Craig.

    Al Michaels, telecronista per la rete televisiva ABC, commentò così gli ultimi secondi del match: “Undici secondi, vi restano dieci secondi, stanno contando alla rovescia. Morrow passa a Silk, restano cinque secondi di gioco! Credete nei miracoli? Sì!”.

    Il termine “miracolo” venne plasmato intorno all’evento in quel preciso istante.

    Mark Pavelich e tutti i suoi compagni vennero portati in trionfo. Il coro che salì imperioso dalle tribune: “U.s.a. U.s.a.”, in voga ancora oggi, venne esportato a tutti i grandi avvenimenti dello sport a stelle e strisce.

    Ma non era ancora finita. Servì un ultimo sforzo, contro la Finlandia, in lotta per la medaglia di bronzo. Sotto per 2-1, dopo il memorabile discorso alla squadra di Herb Brooks prima dell’ultimo periodo, gli Stati Uniti tornarono sul ghiaccio. A coronare il loro sogno.

    E quello di una nazione intera.

    Phil Verchota, Rob McClanahan e Mark Johnson firmarono rimonta e sorpasso.

    E così, sdoganarono l’impresa.

  • Trio delle meraviglie: Nilsson, Zanier e Pavelich Foto: A.S. Alto Adige
  • Pav, come veniva chiamato Mark nel suo ambiente, motore instancabile di quella squadra miracolosa, impedì ai migliori giocatori del mondo di esprimere il loro reale potenziale. Limitandoli grazie alla forza, l’intelligenza e l’abnegazione. In un modo che pochi altri giocatori sono poi riusciti ad esprimere in futuro. In quello che viene identificato idealmente come: l’hockey moderno.

    “Per le sue caratteristiche - conferma Gianni Spoletti, backup di Mike Zanier nella Stagione della Stella per l’Armata Biancorossa - Mark avrebbe potuto giocare tranquillamente nell’attuale Nhl. Ed essere ancora tra i migliori”.

    Una teoria rinforzata da un aneddoto. “In ogni allenamento Pavelich ebbe cura di ogni minimo dettaglio - continua Spoletti -. Su questo fu sempre rigoroso. Alla fine di ogni seduta era solito chiedere a me o a Mike di fermarci per altri 15 minuti di pratica supplementare: “uno contro zero”.

    In cosa consisteva?

    “Gli lanciavamo un centinaio di dischi, dietro la porta. Mark partiva a tutta dall’angolo, puntando il nostro slot dritto per dritto, con la sua proverbiale andatura a pendolo. Anche per noi portieri quei momenti furono importanti. Per studiare l’imprevedibilità dell’attaccante. A Mark invece, quei cento dischi quotidiani, servirono per migliorare quello che fu uno dei suoi cavalli di battaglia”.

    Il celeberrimo gesto tecnico, iniziato rigorosamente dietro la gabbia, sul quale il portiere avversario finiva immancabilmente ipnotizzato dalle finte di Pav. Lo specchio della porta si spalancava, permettendo a Mark di collocare agevolmente il disco in rete.

    “In quelle stagioni a Bolzano - ama ancora ricordare Gianni Spoletti - Mark fu un compagno di squadra esemplare. Un ragazzo di poche parole, ma dal cuore grande. Si rese sempre disponibile ad aiutare i compagni. Specialmente i piu giovani. Conscio com’era di guadagnare molto di più”.

    Le gerarchie nello spogliatoio, invece?

    “Lì, il padrone incontrastato fu ovviamente Kent Nilsson. Ovunque andasse Magic Man, fu inevitabile. Mark, invece, provò certamente ammirazione per lo svedese ma preferì sempre mantenere un profilo basso. Poche parole e tantissimo lavoro. Sempre in soccorso dei compagni di squadra. Avere due fenomeni del genere, tra di noi, fu realmente incredibile”.

    Nel tempo libero avete condiviso qualche hobby particolare? “Certo, andavamo a pescare lungo l’Adige! - rivela l’ex portiere biancorosso -. Mi aggregai spesso con Jimmy Boni, vero professionista della pesca a mosca, alle uscite programmate da Pav. Erano momenti davvero divertenti e rilassanti. Ogni tanto Mark arrivò di primo mattino in compagnia della figlia Tarja, nel trasportino appoggiato sulle spalle”.

    Come, prego?

    “Si deve abituare anche lei all’aria frizzante del mattino”, era solito ripetere. Mark era fatto così. Ma molti di noi lo portano ancora oggi nel cuore”.

    In fin dei conti, anche Mark Thomas Pavelich da bambino preferì le escursioni nelle foreste che lambivano le sponde del Lago Superiore ai giochetti fatti in cortile con i suoi coetanei. Come un vero cucciolo di indiano Dakota.

    Un vero e proprio lago di ricordi, invece, è quello che esonda dal telefono quando chiediamo a Maurizio “Niki” Scudier di aprire il cassetto degli aneddoti di quella memorabile stagione ‘87-‘88.

    “L’Hockey Club Bolzano - parte di botto Scudier - chiese chi fosse disponibile ad andare a Malpensa a prendere Mike Zanier e Mark Pavelich. Andammo io, Robert Oberrauch ed Ivo Maurer.

    Sul portiere nulla da dire, ma quando ci trovammo Mark per la prima volta di fronte, rimanemmo allibiti. Jeans bucati, casacca a stelle e strisce di una taglia enorme, Timberland usate come pantofole, con le caviglie scoperte. In una mano la chitarra. Nell’altra la canna da pesca”.

  • Kent Nilsson: Il forte giocatore svedese era soprannominato The Magic Man Foto: A. S.
  • Da quel momento, però, iniziò un momento nella vita di “Niki”. Che non potrà mai scordare. “Quella stagione - ammette - non fu bella. Di più. Sotto ogni punto di vista. Con Kent Nilsson e Mark Pavelich al nostro fianco crescemmo tutti moltissimo. Lo svedese fuori dal ghiaccio era più compassato. Mark invece era il classico spirito libero. Di poche parole. Ma con battute ironiche davvero affilate”.

    Come se stesse ancora vivendo una delle indimenticate vigilie dei big-match contro Merano o Varese di quella stagione, Maurizio Scudier snocciola le fantastiche linee d’attacco di quell’anno.

    “Pavelich agiva da centro - ricorda - come sue ali ruotavano Martin Pavlu, Hubert Gasser ed il sottoscritto. Nilsson invece aveva preferibilmente Lucio Topatigh e Bruno Baseotto ai fianchi. E a volte mi alternai anch’io. Nelle situazioni di powerplay, il Bolzano prendeva letteralmente il volo. Offrendo spettacolo puro alle tribune del Palaghiaccio di via Roma”.

    Quando scattava la superiorità, The Magic Man, lo svedese dai guanti bianchi, lasciava che fossero i compagni ad impostare l’azione. Restando immobile lungo la balaustra, a cavalcioni della linea blu, sulla destra del portiere avversario. Appostato come un predatore.

    Spesso era proprio Mark Pavelich ad uscire di zona con il disco. Ed a quel punto l’intesa con Nilsson scattava immediatamente. Scarico sullo svedese e fuga a presidiare il suo amato angolo. A quel punto Nilsson entrava nel terzo offensivo a sinistra della gabbia. Avendo due opzioni. O serviva l’altra ala (Pavlu o Topatigh, alla bisogna) oppure restituiva il puck a Pavelich. Il pacchetto avversario del penalty killing ondeggiava a destra e Mark fulmineamente restituiva il disco a Nilsson, già in attesa dell’assist a sinistra, con la sua Christian pronta ad esplodere il tiro.

    La traiettoria era spessissimo indirizzata all’incrocio dei pali. E per il portiere avversario c’era davvero poco da fare... "Vederli giocare insieme era davvero favoloso - incalza Maurizio Scudier -. Pavelich in quella stagione perse non più di dieci ingaggi. E non si fece mai intimidire da nessuno”.

    Qui, si apre - rigorosamente - un capitolo a parte. Scudier inizia a raccontarlo.

    “Stagione ‘88-‘89, Asiago ingaggia Perry John Turnbull. Un fighter con oltre 600 partite in Nhl. Fisico scultoreo, mani di pietra e carattere alquanto suscettibile. Giochiamo contro i veneti e Turnbull si presenta con un crosscheck pesantissimo su di me. Seguito da un’altra carica folle su Norbert Gasser. Che finisce a testa in giù sul ghiaccio, dentro la nostra gabbia. Dal pancone si alza Mark Pavelich, insegue Turnbull e quando se lo trova davanti gli piazza la stecca al collo. I due si dicono qualcosa mentre Mark si porta Perry John in giro per la pista, con la sua Christian in tubo di alluminio (il primo giocatore in Europa ad usarla fu proprio Pav, nda) puntata sulla giugulare. Incredibilmente Perry John Turnbull non reagì e tutti noi non potemmo credere a ciò che stavamo vedendo”.

    Solo l’anno seguente, quando Maurizio Scudier e Robert Oberrauch atterrarono a Minneapolis, per godere dell’ospitalità di Mark Pavelich e trascorrere qualche settimana a casa sua proprio a Duluth, in Minnesota, i due compagni di squadra ebbero modo di comprendere la pregressa ostilità esistente tra Mark e Perry John Turnbull.

    “I locali dell’aeroporto - incalza nuovamente Maurizio Scudier - erano totalmente ricoperti da immagini inneggianti proprio al Miracle on Ice. Ben sapendolo, Mark ci venne a prendere mezzo camuffato, cappello ed occhiali da sole, con un gigantesco pick-up. A bordo del quale c’erano due canoe. Quando arrivammo a casa sua, Mark ci svelò l’arcano. Tirò fuori una cassetta Vhs in cui erano registrate le immagini di un datato New York Rangers-Saint Louis Blues. Durante il quale Turnbull caricò Pavelich con l’usuale violenza. L’azione fallosa scatenò l’inferno tra le due squadre. Quando Mark si riprese dal crosscheck, entrò come una furia nel pancone dei Blues. Prendendo  Turnbull per le orecchie e riportandolo sul ghiaccio. Pronto a consumare la sua vendetta. Furono separati a fatica e solo allora capimmo cosa accadde realmente, anni prima, tra di loro”.

    Anche Maurizio Scudier, come fatto in precedenza da Jimmy Boni e Gianni Spoletti, non può non rammentare la bellezza e la squisitezza del ragazzo altruista e generoso, che fu Mark Pavelich. Il mattino seguente la lunga chiacchierata con “Niki” Scudier, arriva dalla East Coast degli States la mail di un personaggio che, ancora oggi, reputo straordinario.

    Che ha ricevuto dalla sua carriera un’abbondante contropartita a tutti i sacrifici fatti per emergere. E dalla vita, o per meglio dire: dal destino, una determinante “seconda opportunità”. Uno dei centri più forti e completi che mai siano arrivati in Italia. Capace anche di generare un legame affettivo inscindibile con la nostra amata Hockeytown: Gaetano Orlando.

    Dopo ben 16 anni trascorsi a curare lo scouting dei New Jersey Devils, da tre stagioni Gates lavora con le stesse mansioni per una delle franchigie di New York. Non gli amati Rangers di Pav. Ma gli Islanders.

    “Scrivo in italiano, Andrea. Anche se non è dei migliori!” Gates riesce a strappare un sorriso. Poi, quando inizia a sfogliare il suo album dei ricordi, le sue parole si fanno davvero toccanti.

    “Pav era un uomo diverso. Per me, non si è mai preoccupato di ciò che gli altri pensavano di lui. Ha sempre camminato al suo ritmo. O, come si dice in inglese: "marched to his own drummer"! Quando sono arrivato in Italia, a Merano, ed ho visto la rosa del Bolzano, sapevo già che Pav sarebbe stato il giocatore chiave della squadra. Nilsson era uno spettacolo. Però Mark era sempre il cervello ed il motore. Era un giocatore sottovalutato. Ma a lui andava bene così. Sempre discreto nel suo lavoro. E SEMPRE costante. Ho visto Mark davvero felice quando aveva vicino sua figlia Tarja o suonava la chitarra. Da solo o con Paolo Casciaro. Con il cigarello in bocca. E quando parlava della pesca, c'era sempre un sorriso... Queste cose erano le sue vere passioni.  Secondo me, Pav non era entusiasta di essere un idolo per il suo pubblico. L'hockey per lui non era la cosa più importante. Era un uomo semplice, e piuttosto chiuso, con quelli che non lo conoscevano". Firmato Gates

    Cos’altro aggiungere?

    L’ultima testimonianza, sulla figura del compianto protagonista del “Miracle on Ice”, giunge quasi dall’altro capo del mondo. Dalla West Coast. E più precisamente: Vancouver.

    Ron Chipperfield, il primo capitano della storia degli Edmonton Oilers in Nhl ed il primo “Nhler” a giungere in Italia, nel settembre del 1981, per giocare con l’Hockey Club Bolzano (creando anche un legame indissolubile tra la sua esistenza e la nostra città) ci regala qualche minuto del suo tempo. Giusto per regalarci il suo personale ricordo di Mark. “Nell’estate del 1987 - ci ricorda l’ex giocatore e poi manager dell’Hockey Club Bolzano - la società biancorossa mi diede disponibilità molto più ampie del solito per gestire il mercato. Trattare con Kent Nilsson e Mark Pavelich non fu affatto un problema. Mark, in particolare, mi chiese solo qualche giorno per parlare con la famiglia ed organizzare la loro partenza per l’Italia”.

    Chipperfield rivela altri dettagli delle due transazioni. “Dopo l’ingaggio della stella svedese, dotato di un gioco molto offensivo, dovetti equilibrare questa caratteristica con un centro che fosse invece in grado di fare senza problemi le due fasi. E Mark fu la perfezione, in questo. In passato i New York Rangers poterono giocare a tutto campo grazie alle straordinarie attitudini di Mark Pavelich. Ogni allenatore vorrebbe uno come lui in squadra”.

    Il discorso scivola poi sull’inevitabile paragone tra i due fenomeni. Ron si presta volentieri. “I loro caratteri erano estremamente diversi - ricorda -. Mentre Kent era gioviale ed in allenamento, come in partita, si divertiva realmente, Mark invece era più taciturno e sul ghiaccio sgobbava come un matto. Entrambi però sono sempre stati un esempio molto fortificante per il resto della squadra. Perché estremamente disciplinati”.

    L’ultima riflessione di Ron Chipperfield, inevitabilmente la più toccante, chiude la nostra cordiale chiamata intercontinentale. “Porterò sempre dentro di me un ricordo bellissimo di Mark. Uomo di poche parole ma di grande cuore. Amava i suoi compagni di squadra, specialmente i più giovani. Un ragazzo veramente d’oro. Che ha chiuso tristemente la sua vita”.

    Il 5 maggio 2021, attraverso un social, riuscimmo a contattare Jean Pavelich Gevik, la sorella di Mark. Nostro intento: confezionare una bella intervista.

    Allo scopo di far emergere la figura ed il ricordo del suo caro. Jean non potè acconsentire. E questa fu la sua risposta alla richiesta.

    “Ciao Andrea, sembra un bellissimo omaggio a mio fratello. Ma, ho già un accordo. Per lo stesso motivo. E non posso creare eventuali conflitti. Ci vorrà molto tempo prima che possa sciogliere questo vincolo. Ma conserverò i vostri contatti e vi aiuterò. Grazie per l’opportunità di mantenere viva l’eredità di Mark. Un caro saluto, Jean”.

    Dedicato alla sua memoria ed alla sua figura, il 13 marzo dello scorso anno un gruppo di leggende della Nhl, guidato dall’ex capitano dei New York Rangers, Barry Beck (“Un grande uomo ed un grande campione - ricorda proprio Jean -. Che sul ghiaccio guardò sempre le spalle a Mark...”) ha dato ufficialmente vita a Sauk Centre, località del Minnesota dove Pav trascorse gli ultimi anni della sua esistenza, all’organizzazione no profit denominata: “The Ranch - Teammates for Life”, la cui struttura è una sorta di memorial. Che ospita persone bisognose e le sostiene attraverso un cameratismo condiviso, costruito sulle stesse passioni di Mark: gli animali, la pesca, la musica e la vita all’aria aperta.

    Prima di lasciarci, Pavelich contribuì con diverse donazioni alla realizzazione dell’opera. E chiese ai suoi familiari di fare altrettanto. Sul patio di “The Ranch” sono state erette due statue. Una raffigurante Mark. L’altra, un marine. Poste una davanti all’altra.

    Insieme, reggono la bandiera degli Stati Uniti d’America. Un’immagine che vuole ricordare l’importanza della fratellanza e della cooperazione. “I russi, i russi, gli americani. No lacrime, non fermarti fino a domani...”.

    Mark Thomas Pavelich, per un’ironia del destino, è mancato proprio il giorno in cui nacque Lucio Dalla, il 4 marzo 2020. Nel suo testamento, moltissimo dello stesso amore per il prossimo. Quello che riempì gran parte della sua miracolosa vita.

  • L'autore

    * Andrea Scolfaro, ottima penna sportiva con il gusto del racconto, è collaboratore di HCBfans.net, il portale dei tifosi biancorossi, che assegna annualmente, tra le altre cose, anche il Premio combattività Gino Pasqualotto appena assegnato a Cristiano DiGiacinto. L'articolo è il 23mo di una gustosa serie intitolata ASSI DI BASTONI. Ringraziamo HCBfans.net e l'autore per aver autorizzato la pubblicazione.