Di cosa parliamo quando parliamo di cibo
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SALTO: In cosa consiste il laboratorio?
Marie Moïse: L’idea è quella di lavorare sugli immaginari, sui linguaggi e sul rapporto alla cultura alimentare come dei possibili campi per tirare i fili della storia e per imparare a usare delle lenti di lettura della realtà decoloniali. In questo modo si riesce a capire come abitudini che consideriamo normali siano frutto di una lunga storia di colonizzazione e schiavitù. Durante il laboratorio, mi concentrerò sulla cultura alimentare italiana: il binomio cibo-italianità è molto forte eppure, avendo rimosso la vera origine di molti cibi, è una rappresentazione della storia coloniale. Non voglio però spoilerare troppo…
Come si lega il cibo a un’idea di appropriazione?
La storia coloniale del cibo è basata sulla cancellazione del legame di determinati prodotti con la loro terra d’origine e con le loro pratiche di lavorazione. Inoltre, l’appropriazione avviene anche eliminando il rapporto che le comunità hanno costruito con i prodotti della terra, rapporto quasi sempre basato sull’interdipendenza e non sul consumo come avviene nella società occidentale. Il colonialismo in termini alimentari significa sradicare i prodotti dalla loro cosmologia originaria e introdurli in altri quadri sociali per farli diventare oggetto di proprietà e di consumo per il Paese in cui sono stati deportati. Ciò avviene molto spesso attraverso l’eliminazione dei nomi, gesto che andremo a esplorare nel laboratorio.
L’appropriazione culturale è una pratica che vede protagonista anche il mercato della moda, penso alle accuse di rivolte, per esempio, a Zara e a Benetton che hanno utilizzato in modo improprio disegni artigianali di culture del Centro e Sudamerica. L’industria della moda, come quella agroalimentare, riesce a vendere una forma di colonialismo attraverso il concetto di etnicità o, addirittura, elogio alle altre culture. Come riesce a fare ciò?
La costruzione dell’Europa e dell’identità bianca si basa su prodotti che vengono da fuori l’Europa, su immaginari di cui godere in senso erotico ed esotico, un meccanismo che sta alla base del potere coloniale. Il fatto che qualcosa sia marchiato di eroticità ed esoticità lo rende desiderabile e appropriabile. Basti pensare al fatto che molti cibi esotici sono considerati in Occidente afrodisiaci. Ciò porta a considerare l’Altro un oggetto: il corpo è visto come carne, la terra e i suoi prodotti come qualcosa da possedere.
Dunque, cos’è l’appropriazione e cos’è la contaminazione?
La differenza sta nel rapporto di potere: c’è contaminazione quando le traiettorie di trasformazione sono orizzontali e circolari, al contrario c’è appropriazione quando la trasformazione è verticale, imposta dall’alto attraverso forme di violenza.
Con il nuovo governo esiste il Ministero dell’agricoltura, della sovranità alimentare, delle foreste. L’espressione “sovranità alimentare” è ambiguo?
Sì. Il principio politico della sovranità alimentare nasce dai movimenti dei contadini del Sud del mondo contro le imprese agroalimentari occidentali. Il Sud del mondo rivendica la propria sovranità alimentare rispetto alle economie del Nord del mondo. Ora questa espressione è presa da un governo sovranista che basa la sua politica su confini e gerarchie. È avvenuto un furto da parte di un ministero condotto da un personaggio che parla di “etnia italica” e che crea una fermata ad hoc del treno su cui sta viaggiando. Se si equipara la sovranità al sovranismo il primo concetto perde qualsiasi senso. Detto ciò, non ci dobbiamo attaccare troppo alle parole come significanti, perché il significato lo fanno le pratiche di lotta.
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"Che tu sia il mio corpo. La costruzione razziale dell'identità bianca italiana" con Marie Moise
Il laboratorio è a offerta libera, per prenotarsi scrivere a [email protected]
Immaginiamo di attraversare un mercato di quartiere. Cominciamo a camminare tra le file di frutta e verdura, ci fermiamo davanti al banco della carne e immergiamo una mano nei grandi sacchi di cereali e legumi. Ci guardiamo intorno, con uno sguardo che, per un giorno, non è orientato al consumo, ma alla lettura dei significati impliciti nelle nostre ordinarie percezioni visive. Alla fine della visita, ci sediamo a un tavolo di un bar vicino, sorseggiamo un caffè e qualcuno si accende una sigaretta. I prodotti alimentari e le loro tradizioni culinarie veicolano specifiche rappresentazioni culturali di un Paese. La storia dei prodotti che simboleggiano l'"italianità" rivela la loro genealogia coloniale, così come la colonialità delle strutture di pensiero che sono state messe in atto con l'integrazione di questi prodotti nelle narrazioni dominanti della modernità. Un filo rosso traccia la continuità tra le memorie della piantagione coloniale e le industrie agroalimentari di oggi. Al centro risiede una concezione del corpo plasmata nel corso della storia da quel processo che prende il nome di "razzializzazione".
Attraverso giochi interattivi, condivisione di conoscenze e discussioni in piccoli gruppi, andremo alla ricerca dell'ordine simbolico coloniale che viene trasmesso e riprodotto attraverso gli immaginari e le pratiche alimentari, per capire come tale ordine simbolico si rifletta nelle strutture produttive e riproduttive dell'Italia contemporanea come sistema economico e sociale di matrice razziale.
Marie Moïse (Milano, 1987) PhD in Filosofia politica presso l’Università degli Studi di Padova, in co-tutela con l’Université Toulouse II - Jean Jaurès. Ha una laurea in sociologia e antropologia all’Université Paris Diderot e una triennale in Scienze Storiche presso l’Università degli Studi di Milano. Le sue ricerche vertono principalmente su questioni postcoloniali e di genere in un’ottica intersezionale.
Accanto alle sue pubblicazioni scientifiche, scrive per diverse testate giornalistiche, cartacee e online. Ha tradotto Femonazionalismo. Il razzismo nel nome delle donne di Sara R. Farris (Roma, Alegre, 2019) e, assieme ad Alberto Prunetti, Donne, razza e classe di Angela Davis, (Roma, Alegre, 2018).