Society | Giornalismo di guerra

L'Afghanistan di Stefan Wallisch

Intervista al giornalista Ansa, viennese di nascita ma bolzanino d'adozione, che in questi giorni si trova ad Herat.
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Foto: zigzag

Il giornalista dell'Ansa di Bolzano Stefan Wallish, viennese di nascita ma altoatesino d'adozione, è in questi giorni in Afghanistan. Lo abbiamo intervistato per offrire ai lettori di Salto una testimonianza di prima mano sull'attuale situazione in cui versa quel paese, tuttora travolto da una guerra civile che non sembra vedere una luce in fondo al tunnel. 

Stefan Wallisch: qual è il motivo del tuo viaggio in Afghanistan? E' la prima volta che ci vai?
Stefan Wallisch - Ho avuto la possibilità di andare in Afghanistan con l’ANSA per cui lavoro e si è trattato di un’occasione che ho colto al volo. Per me infatti si tratta della prima esperienza professionale di questo genere. Sono stato in più occasioni per l’ANSA in Austria e in Germania, ma mai in una zona ‘calda’, come l’Afghanistan.

Come si è svolto il tuo lavoro? Eri "embedded"? Se sì, cosa vuol dire oggi essere embedded?
Sì, sono in Afghanistan come giornalista embedded con l’esercito italiano, ovvero seguo le attività dei nostri militari e mi sposto esclusivamente con loro. Credo che in questo momento sia praticamente impossibile spostarsi da soli in questo paese. Certamente non essere embedded sarebbe più simulante dal punto di vista professionale, ma troppo pericoloso. Quando per esempio ho seguito con due colleghi fotoreporter freelance, Emanuele Satolli e Federico Grattoni, un pattugliamento a un avamposto afgano a sud di Shindand, una zona non proprio sicura, ci siamo spostati con dei Lince e dei Freccia superblindati e un drone ci ha seguiti dall’alto.

Come ti è sembrata la situazione? Questi in Afghanistan sono stati giorni molto difficili…
In questa fase di transizione verso la conclusione dell’operazione Isaf - avviata con una risoluzione dell’Onu - è ancora molto tesa, come dimostrano gli attentati quasi quotidiani. I talebani ora prendono sempre più spesso di mira gli afghani che rappresentano le istituzioni del paese. Noi ci spostiamo di base militare in base militare e siamo sempre scortati. Ma in questi giorni penso spesso a tutti coloro che non godono di queste misure di sicurezza e si espongono in prima linea per ricostruire il loro paese. La strada da percorrere in questo senso è ancora molto lunga.

Hai potuto incontrare altoatesini che al momento si trovano lì? 
Ho incontrato gli alpini del 5/o reggimento di Vipiteno che garantiscono la sicurezza della base militare di Herat. Sono però soprattutto altoatesini ‘d’adozione’, come molti altri militari che hanno prestato servizio in provincia di Bolzano e che hanno ancora un bellissimo ricordo della nostra terra.

Hai avuto contatti con associazioni umanitarie? Qual è il livello di difficoltà in cui operano?
No, purtroppo no. Ad Herat attualmente opera il Provincial reconstruction team italiano che con fondi del ministero della difesa ha realizzato complessivamente 381 progetti medio-grandi, come poliambulatori, scuole, canali d'irrigazione, distretti di polizia, palazzi governativi e strade, come anche innumerevoli progetti più piccoli, per esempio 800 pozzi. Con il termine dell’operazione Isaf a fine 2014 anche questa competenza passerà direttamente agli afghani. Questo non significa però che non avranno più bisogno di noi. Per le Ong occidentali la situazione attualmente mi sembra ancora molto pericolosa.