Un "corto" sull’effetto spettatore
È molto probabile che sia capitato a tante di noi di provare disagio o paura mentre si viaggia su un mezzo di trasporto pubblico. Nell’immaginario collettivo autobus, treni, metropolitane sono spesso luoghi dove, soprattutto di notte, possono avvenire violenze, una convinzione quest’ultima che ha portato alla creazione di carrozze per sole donne. Se in Italia è del 2021 la petizione che chiede a Trenord di adibire delle carrozze per sole viaggiatrici, in Giappone lo scompartimento “a parte” è una realtà da quasi vent’anni. La scelta di confinare le donne in un vagone a sé stante sembra però non considerare il fatto che lo spazio meno sicuro dal punto di vista della violenza di genere è la casa.
I dati resi disponibili da Gea – la cooperativa che gestisce il Centro Antiviolenza e la Casa delle Donne di Bolzano – dicono che nel 2022 nell’80% dei casi le donne che si sono rivolte a Gea hanno subito violenza dal partner o dall’ex partner, nel 9% dai famigliari, nel 6% da conoscenti e solo nel 4% dei casi da sconosciuti. È anche a fronte di questi numeri che Christine Clignon, la presidente di Gea, afferma che l’urgenza è “di garantire i presupposti perché le donne possano vivere e muoversi sicure ovunque, non segregarle in uno scompartimento. Non esistono solo le donne violentate e gli uomini maltrattanti, ma tutto il resto della popolazione che deve mostrarsi più attenta e responsabilizzata in modo che non si giri dall’altra parte di fronte a una situazione di violenza maschile contro una donna, ragazza o bambina”.
L’indifferenza generale a cui accenna Clignon quando parla della necessità di renderci tutte e tutti più responsabili e partecipi è il tema che Elena Felici – giovane regista bolzanina che vive e lavora in Danimarca – sviluppa insieme a un gruppo di lavoro dell’Animation Workshop – VIA University College di Viborg nel suo pluripremiato cortometraggio d’animazione. “Busline35A” (clic qui per vederlo ) mette in scena quello che viene definito “l’effetto spettatore” che si riferisce a quei casi in cui gli individui non offrono alcun aiuto a una persona in una situazione di emergenza quando sono presenti anche altre persone. Nel bus 35A che potrebbe essere qualsiasi linea notturna di qualsiasi città d’Italia un uomo indispone una ragazza, ma il focus è concentrato sugli altri tre passeggeri che pur essendosi accorti di quello che stava avvenendo decidono di non intervenire.
salto.bz: Elena, come è nata l’idea di questo corto?
Elena Felici: Nasce da una mia esperienza personale accadutami qualche anno fa a Bolzano dove ero tornata per le vacanza di Natale. Mi trovavo a una fermata dell’autobus quando un signore ubriaco inizia a scagliare addosso me e a un’altra ragazza varie imprecazioni. Mentre urla “Sei una puttana!” vedo che un poliziotto si ferma al semaforo e guarda dalla nostra parte. Credo che voglia intervenire ma appena scatta il verde se ne va come se nulla fosse. Ecco, quest’episodio mi fece riflettere molto sia sulla differenza in termini sociali tra lo stato danese e quello italiano, sia su come nel nostro paese a volte tendiamo a essere omertosi.
In “Busline35A” hai deciso di concentrarti sugli spettatori, cioè sui passeggeri del bus non direttamente coinvolti dall’insistenza con cui l’uomo cerca di interagire con la ragazza. Perché?
Inizialmente l’idea era quella di concentrarmi sulla ragazza che riceveva le molestie, ma il risultato appariva sempre vittimistico e in più mi accorsi che concentrandomi sulla vittima non creavo motivo di riflessione. Inoltre non era mia intenzione far star male il pubblico, renderlo responsabile rispetto alle vicende del corto. Volevo fare qualcosa che portasse a ragionare e che fosse cinematograficamente interessante, così ho pensato di assumere il punto di vista delle persone che non intervengono.
L’episodio di molestia è un esempio nato da un’esperienza personale, ma vorrei che la riflessione a proposito della deresponsabilizzazione fosse più generale.
Qual è l’obiettivo che ti sei posta con “Busline35A”?
Ho voluto proporre una chiave di lettura un po’ diversa e far riflettere il pubblico sull’effetto spettatore. L’episodio di molestia è un esempio nato da un’esperienza personale, ma vorrei che la riflessione a proposito della deresponsabilizzazione fosse più generale.
Hai seguito qualche principio di storytelling per sviluppare il corto?
Sì! Un giorno un mio amico mi raccontò questo piccolo aneddoto: quando una storia riesce a far ridere il pubblico e contemporaneamente lo fa sentire in colpa per il fatto di aver riso, fa sì che il pubblico stesso inizi ad analizzare il motivo della sua ilarità. Su questa sorta di paradosso ho basato tutto il corto: guardando “Busline35A” si criticano i passeggeri che non intervengono ma è facile immedesimarsi in loro, allo stesso tempo il tratto simpatico del disegno si contrappone al tema. Lo stile bambinesco è interconnesso con il modo di fare dei testimoni che ingenuamente si ostinano a pensare ad altro pur di non intervenire.
Secondo te qual è il potere comunicativo dell’animazione?
È un potere immenso basti pensare che più un personaggio o un’ambientazione è realistica maggiore è la difficoltà per il pubblico di identificarsi. Di conseguenza più uno stile è sintetico più il pubblico si immedesima in quello che vede perché, in un tentativo di attribuire completezza, proietta le sue caratteristiche sul personaggio di cui segue le vicende. L’animazione spesso è poco lineare, non ha l’obbligo di rappresentare la realtà quindi non ha limiti. L’unico vero limite sono le capacità artistiche e l’immaginazione dell’artista.