Chronicle | Dopo il voto

L'Italia s'è desta?

Come si spiega la vittoria schiacciante del Pd di Matteo Renzi? Nei commenti apparsi sui quotidiani il ritratto del protagonista di un inaspettato nuovo “miracolo italiano”.

La lettura dei quotidiani, diceva Hegel, è la preghiera mattutina dell'uomo moderno. Condita da caffè e spremuta di arancia. Ma a leggere i quotidiani di oggi (27 maggio) la sensazione più forte è quella di un risveglio da un sonno della ragione durato ben più delle fatidiche otto ore. La preghiera ha assunto così piuttosto i toni di un ringraziamento, almeno da parte di chi ha salutato la vittoria di Matteo Renzi come una vera e propria “liberazione” dal doppio incubo grillino e berlusconiano. Ringraziamento e sorpresa: preso atto del risultato elettorale, il pensiero di molti è stato “chi l'avrebbe detto”?

E anche lo stesso Renzi, c'è da giurarlo, stamani si sarà parecchio rallegrato di ritrovarsi ritratto come “statista”. I paragoni si sprecano. Antonio Polito, sul Corriere della Sera, scomoda addirittura il Fanfani del 1958, ipotizzando nientemeno che lo “sfondamento” dei confini tradizionali della sinistra: “E' come se si fosse sciolta una montagna di ghiaccio, e l'acqua avesse preso finalmente a fluire tra un mare elettorale e l'altro”. Tutti hanno votato per Renzi, “anche quelli dell'Italia senza aggettivi, il Paese normale, i ceti medi, i lavoratori autonomi, la gente del Nord, quella che vive in provincia e guarda Raiuno” (per inciso: guarda Raiuno e probabilmente ha visto anche Grillo da Vespa, ma non è stata convinta).

Il paragone con la “vecchia” Dc, ovviamente, è presente anche in versione critica. E il blocco di ghiaccio qui torna a irrigidirsi, riferendosi al conservatorismo reazionario del quale sarebbero eternamente affetti gli italiani. Matteo Pucciarelli, su Repubblica, ne offre un esempio cogliendo l'espressione di delusione sul volto di Dario Fo, da tempo “intellettuale inorganico” al fianco di Beppe Grillo: “Moriremo democristiani, ecco la sostanza. Questione antropologica, chissà. La storia di questo Paese continuerà sempre uguale a se stessa”.

Con notevole e inaspettata sintesi storica, la “genesi” dell'evento - che potrebbe rivelarsi epocale (anche nel senso pseudo-vichiano del “ricorso”) - è schizzata da Angelino Alfano, intervistato da Repubblica: “Quando Berlusconi ha varcato il portone del Pd è lui che ha legittimato Renzi, non il contrario. Gli elettori di Forza Italia hanno capito che quella non era più la sede del partito avversario”. Le analisi dei flussi elettorali gli stanno dando ragione. Anche se in questo caso il fluido ha più a che fare con un travaso di carisma, passando per una stretta di mano e un colloquio che fece storcere molte bocche, adesso distese in larghi sorrisi.

Al di là di ogni altra possibile considerazione, nessuno dubita che lo straordinario successo del Pd abbia un solo nome e un solo cognome. Il suono dell'orchestra sfuma nell'ombra (come canterebbe Paolo Conte), il faro illumina al centro del palcoscenico l'ennesimo one-man-band. E dunque anche la dannazione, sempre possibile, è attribuita all'involuzione del personaggio, allorché i pregi possono trasformarsi improvvisamente in difetti, come accade in tutte le storie d'amore. Ne parla Angelo Panebianco a chiusura del suo editoriale. “Al momento – scrive la firma del Corriere della Sera -, Renzi ha un solo vero nemico da cui guardarsi: se stesso. Deve vincere una certa propensione all'improvvisazione, allo slogan brillante che fa apparire di semplice soluzione problemi complessi. Deve fare, per davvero, il tanto che ha promesso e che, ancora, in larga misura, non ha nemmeno cominciato a fare”. Parole sagge. Anche se forse non colgono l'essenziale: e se Renzi avesse vinto proprio per questo?