Culture | SALTO WEEKEND

Goethe e i Talebani

Per uscire dalle contraddizioni del presente occorre attingere a una comune nozione di “Rinascimento” che riannodi i fili spezzati tra Oriente e Occidente.
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Foto: commons.wikimedia.org

Due piccoli libri – acuti, densi e scritti benissimo – per parlare del presente e delle sue difficoltà. Libri che riescono a unire in modo credibile storie passate e ad aprire così uno sguardo, forse persino un varco verso il futuro (chi aderisce infatti solo al presente, rimanendone schiacciato sotto la sua pressione, non riesce a capire come sia stato possibile giungere fin lì e non riesce a immaginarsi una via d'uscita). Libri che si tendono la mano e quindi da leggere insieme, possibilmente.

Rinascere dalle rovine

Il primo volume è uscito da poco, l'ha scritto Salvatore Settis (“Cieli d'Europa”, Utet) e costituisce un meraviglioso esempio di pamphlet edificante (oserei quasi dire riedificante, vedremo subito perché) composto a partire dall'amara constatazione di trovarci in un tempo segnato da numerose correnti iconoclastiche. Secondo Settis il termine “iconoclastia” è appropriato a descrivere non solo l'odio e quindi la distruzione di determinate “immagini”, ma indica in modo più largo (e non metaforico) “la violenza che devasta le città, i paesaggi, le memorie storiche”. Invece che soffermarsi autocriticamente su quanto noi europei (e in particolare noi italiani, basti pensare alla serie di incendi che anche quest'estate hanno fatto scempio del Sud del Paese) stiamo perdendo in relazione al nostro patrimonio naturale e culturale, la maggior parte dei commentatori appunta però il proprio sguardo sui pericoli esterni, difende la propria posizione etnocentrica e disloca la percezione del male esclusivamente fuori dalle nostre mura. Facile stigmatizzare la distruzione dei Buddha gemelli di Bamiyan (12 marzo 2001) ad opera del Mullah Omar. Che invece i pericoli possano essere anche interni, Settis lo dimostra citando un insospettabile caposaldo della nostra tradizione culturale, ossia il poeta tedesco Johann W. Goethe, il quale commentò in modo positivo (e un po' da Talebano) una precedente mutilazione delle stesse statue (private di testa e mani) avvenuta prima del 1832. Bene insomma aveva fatto chi attentò all'integrità di questi “folli idoli eretti e venerati a scala gigantesca” (parole di Goethe, tratte dal suo Divano occidentale orientale). “Movimenti, insorgenze, gesti o pensieri iconoclastici – commenta Settis – possono espoldere dappertutto per cause molteplici, e non sono dati innati o naturali di una sola cultura”.

Difendere il patrimonio del suolo e delle opere che sono state edificate dagli uomini non deve quindi mettere mai capo a una visione sciovinista della cultura (magari nutrita da una scala di valori secondo la quale noi saremmo maestri di civiltà e gli altri sempre inadeguati allievi). Al contrario, il termine “cultura” ha bisogno di essere declinato al plurale, secondo accezioni diversificate (Settis ne individua tre, cfr. il capitolo 12) e in un certo senso coronate da una riscoperta (o “rinascita”, il termine acquista nel senso un ruolo chiave e non solo storiografico) del suo carattere dinamico: “È in questa direzione che dobbiamo sanare le ferite della memoria, puntando su una memoria culturale condivisa, che includa le nostre esperienze e le nostre speranze, ma anche quelle degli esuli che sono fra noi. Che sani le loro ferite, ma anche le nostre. Da sempre, le culture non sono immobili e chiuse cattedrali, ma cantieri aperti alle novità e agli scambi: una nuova cultura comune dell'Europa dovrebbe imparare questa lezione dalla storia” (pagg. 76-77).

Uno degli aspetti più interessanti di questo libro, come accennato, è l'analisi del concetto di “Rinascimento” nel suo risvolto di “riedificazione”, di nuova nascita dalle rovine. Al pari della nozione di cultura, anche il Rinascimento è qualcosa che può essere declinato al plurale, secondo una “forma ritmica” (Ernst Howald) che ci fa capire come in ogni decadenza o rovina si nasconda la ricostruzione. Non cedere alla diffusione dell'appestamento dovuto alla perdita della memoria (Camus) significa “uscire dal guscio” di identità asfittiche e praticare quell'indispensabile “autocoscienza della storia” che non esclude, ma anzi implica, il confronto vivificante (proprio di ogni nuova nascita) tra culture diverse: “Un Rinascimento, italiano ed europeo, restituito alla sua vibrante dimensione storica di risposta alla decadenza e alla morte, è più vero e più vicino all'umanità del nostro tempo. Tale risposta è stata sempre intermittente, oscillante, insicura, talora fallimentare, eppure ricorrente. Nasce dalla contemplazione delle rovine, e dunque non ha nulla di trionfale. Ma può insegnare qualcosa” (pag. 58).

Rinascimento arabo?

Il secondo libro di cui parliamo è un testo tanto minuto quanto essenziale. L'ha pubblicato nel 2004 (la traduzione italiana è di due anni successiva) un intellettuale libanese assassinato con un'autobomba a Beirut il 2 giugno del 2005 (probabilmente per mano dei servizi segreti e degli apparati di sicurezza libanesi e siriani): Samir Kassir, “L'infelicità araba” (Einaudi). Chiunque volesse comprendere la difficile congiuntura presente – contrassegnata dal presunto scontro di civiltà tra mondo occidentale e Islam (secondo il fortunato ma anche fuorviante schema tracciato da Samuel Huntington) –, capire insomma perché, fra le altre cose, siamo esposti al continuo pericolo di essere colpiti da attacchi portati da estremisti che si ispirano al credo musulmano, farebbe bene a meditare a fondo le pagine di Kassir, le quali – al pari di quelle scritte da Settis – individuano uno sviluppo ritmico della civiltà islamica e puntano molto sulla rivalutazione del concetto di “Nahda” (parola che significa “rinascita” e indica il movimento di riforme attestatosi in molte aree del mondo arabo a partire dalla fine del XIX secolo).

Senza scendere nel dettaglio di una ricostruzione storica estremamente avvincente (ma anche molto complessa e articolata), il merito del libro di Kassir è fondamentalmente questo: riesce a convincerci che l'impasse davanti alla quale pensiamo di trovarci – allorché siamo tentati di stabilire un'opposizione secca tra un mondo (il nostro) permeato di ideali e valori democratici, in una parola “moderni”, e l'altro (quello islamico) geneticamente condannato a metterli a repentaglio, perché intrinsecamente fanatico e “arcaico” – è qualcosa di contingente, dunque di modificabile, anche se indubbiamente il momento appare particolarmente sfavorevole. La domanda cruciale è questa: il mondo arabo riuscirà mai a riannodare i fili di quella modernizzazione che, pure, si era annunciata ormai più di un secolo fa, e che poi il processo di emancipazione post-coloniale ha paradossalmente contribuito a strozzare? Conosciamo la risposta dei molti estimatori di Oriana Fallaci, secondo i quali il mondo arabo non può che cadere sotto il giogo di governi autocratici, incapaci di circoscrivere il cancro islamista e quindi di assicurare benessere ai cittadini che vi abitano. Kassir risponde invece così: “Parlare oggi di modernità araba sembra quasi una bestemmia intellettuale. Ma negare che una simile esperienza ci sia effettivamente stata, anche se nella maggior parte dei casi bisogna pensarla come evento di un passato concluso, vorrebbe dire disprezzare la vera storia, cioè la storia così come è stata vissuta, e anche pensata” (pag. 39). “Sarebbe un grave errore – spiega ancora Kassir – dimenticare la Nahda, un'epoca di rinnovamento foriera di progresso, solo perché la sua dimensione nazionalista non ha dato esiti positivi. In realtà, dopo il presunto fallimento, la sua opera continuerà a farsi sentire. Nonostante l'intrusione coloniale abbia liquidato il vecchio impero ottomano a tutto vantaggio delle potenze imperiali europee, senza alcun riguardo per le aspirazioni degli arabi all'indipendenza, lo spirito della Nahda continuerà ad alimentare le lotte per l'emancipazione” (pag. 47). Una diagnosi di disperata speranza, si potrebbe sintetizzare, alla quale è senz'altro utile credere per non cedere alla più cupa rassegnazione.

Non è un caso, allora, che la chiave di volta, anche qui speculare ai ragionamenti fatti da Settis in favore di un'interpretazione “aperta” del concetto di cultura, sia costituita da un impulso al confronto con l'Altro europeo, adesso imprigionato esclusivamente in uno schema frustrante (l'infelicità araba è fatta perlopiù di frustrazione che genera poi il vittimismo e i suoi scatti violenti) perché immemore dei passaggi storici che hanno portato a fossilizzarne l'immagine. Ecco, capire che l'infelicità araba è solo l'esito di una frustrazione da sanare attraverso il recupero di una memoria più avvolgente, più attenta a scorgere i punti di contatto che non quelli di rottura che ci legano a lei (e ci sono stati entrambi, com'è ovvio), capire anche che l'assorbimento della reazione identitaria araba nell'alveo del fondamentalismo religioso rappresenta qualcosa dal quale gli stessi arabi hanno bisogno di sfuggire, è il messaggio che traiamo da questo piccolo, preziosissimo e quindi indispensabile libro.