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Astrazioni di una vita per il palco

Per il 70° compleanno di Frida Parmeggiani, due mostre a Merano: Figurazioni tessili a Merano Arte/Kunst Meran e How to Become Frida al Palais Mamming (fino a gennaio).
Frida Parmeggiani 3
Foto: Andreas Marini

Lei non ne aveva voglia, lui aveva trovato il suo lavoro orribile la prima volta che l’aveva visto. Lei era impegnata per una regia lirica, lui appena sbarcato in Europa dagli Stati Uniti d’America. Lei si era già fatta un nome come costumista per spettacoli teatrali e regie liriche sui palcoscenici europei, lui nelle performance dell’avanguardia teatrale newyorkese. Lei è Frida Parmeggiani, lui, Bob Wilson. Da trait d’union aveva fatto Ivan Nagel, critico teatrale tra i più famosi nell’allora Repubblica federale tedesca, a cavallo tra gli anni settanta e ottanta, un caro amico di entrambi. Poi, era nato un sodalizio artistico che sarebbe durato per ben oltre vent’anni e lei ammette volentieri, con la grinta che la distingue ancora oggi giorno, di essere esplosa di gioia però, appena Ivan Nagel le aveva rivelato il nome per chi avrebbe dovuto fare quei «soltanto quattro costumi» al termine di quella famosa telefonata in cui le aveva proposto la piccola collaborazione, e fu per il solo fatto di sentirsi dire: Bob Wilson. Ne era una fan, da sempre, per le scene create di sole luci, elemento che li unisce essendone lei stata attratta e lui avendole chiesto sin dall’inizio di essere presente soprattutto al momento della loro definizione, come se l’avesse intuito, quel grande interesse di lei per questo lato del suo teatro. Lui di lei dice infatti che «era abile nel tradurre le esigenze richieste a un abito affinché potesse prendere vita sul palco, vestendo un corpo che si muove, parla, balla, eccetera». Lei di riflesso sostiene di essere stata «continuamente confrontata con il quesito: che materiale uso affinché il personaggio possa indossarlo senza problemi? come si muove il personaggio? Ci vuole un abito largo o stretto?» Tra i due si era creato un dialogo artistico, spesso silente, sulla base di grande fiducia reciproca in un linguaggio comune, quello visuale, essenziale, influenzandosi l’un l’altra, ognuno nutrendo la propria creatività personale.

Si erano ritrovati a Merano per festeggiare i settant’anni di lei, Frida, nonché l’inaugurazione delle due mostre dedicate alla sua meravigliosa carriera, How to Become Frida al Palais Mamming e Figurazioni tessili a Merano Arte. Lui era arrivato da Milano, non si vedevano da dieci anni. Lei aveva smesso di creare i costumi per colui che aveva rivoluzionato la scena europea con spettacoli e musical del calibro di The Black Ryder o Einstein on the Beach, per citarne un paio, nati spesso da collaborazioni con musicisti famosi, da Lou Reed a Tom Waits passando per Brian Eno e Steve Reich. Erano i gloriosi anni ottanta e novanta del secolo scorso, poi Wilson si era dato a regie più semplici (ad esempio, Quartett con una splendida Isabelle Huppert). Frida si era fermata, non facendocela più a quel ritmo sfrenato, «tutti mi davano della pazza perché lui era un vero workaholic, lavorava sempre!». Inoltre, non ne poteva più di vedere la sua amata natura soltanto dall’alto degli aerei con cui si spostava da una città all’altra: ecco perché era tornata a vivere nella sua città natale, Merano.

Qui Kunst Meran/Merano Arte l’aveva poi invitata a una conferenza per la Giornata della donna nel 2014, e quindi lei era tornata con alcuni disegni e schizzi proponendosi di realizzarli per un progetto comune. Ursula Schnitzer, curatrice di eventi, esposizioni e pubblicazioni, non poteva crederci: lei non avrebbe mai avuto il coraggio di chiederglielo, e fu poi il comune amore per i materiali tessili e per la natura a far schioccare la scintilla di partenza per la mostra. Ecco com’è nato il tutto, poi realizzato in collaborazione con l’Università Mozarteum di Salisburgo, la quale ha aggiunto la seconda mostra assieme al Palais Mamming e alla città di Salisburgo, per cui sono stati selezionati sei studenti del Dipartimento di scenografia e costumi, cinema e allestimenti scenici. A cura di Henrik Ahr è stata tracciata una loro interpretazione artistica del percorso della costumista meranese, assai singolare, da ammirarsi appunto nel museo cittadino, aperto nella sua nuova veste circa un anno fa: l’inizialmente citata How to Become Frida espone le sei opere, assieme alla mostra Working with Frida, una serie di fotografie scattate in bianco e nero da Elisabeth Hölzl durante la fase di lavorazione nell’atelier di Merano Arte. Come si fa a ritrarre il lavoro di una costumista? Non era un compito facile per gli studenti, in quanto di pubblicazioni specifiche non ce n’erano, per cui si erano basati sulle foto d’archivio, sui cataloghi dei vari spettacoli, le riviste di teatro e testimonianze dirette di colleghi o ex allievi della stessa Frida Parmeggiani. Il titolo della mostra, secondo il curatore Ahr, «non fa né da slogan né da concetto curatoriale ma è piuttosto la descrizione del processo artistico creativo». Colpiscono soprattutto due installazioni: X_Ray_Layers di Dejana Radosavljevic e …denn ich lebe nur im Zwischenraum di Valentin Baumeister. La prima è un confronto col mondo teatrale per esplorarne i confini tra le figure e l’ambiente circostante: nell’essenzialità e nel vuoto dello spazio, l’ambiente luminoso nel caso del teatro fatto di luci a cura di Bob Wilson, dove Frida Parmeggiani posava le sue silhouette altrettanto essenziali dai netti contorni e colori decisi sotto forma di costumi creati ai sensi di spazialità e atmosfere temporali, tipiche per le caratteristiche di un non luogo e dell’atemporalità voluti dallo stesso Wilson per le proprie opere. Al contrario, la seconda opera citata, quella di Baumeister, è un tuffo nel mistero del teatro con focus sul «dietro le quinte»: la magia solitamente insita al teatro si reduce qui a una sottile linea bianca (inevitabile il rimando al film di Terence Malick, La sottile linea rossa, avendo lui in quel caso puntato il suo focus su altro «teatro», quello della guerra, messo anch’esso in scena, da esseri umani…). Qui però la sottile linea non scorre sul filo del rasoio tra vita e morte, ma verticale lungo la cerniera di legno di una quinta, tra luce e buio, essendo essa – la quinta - in attesa di un qualsiasi telo scenico che la ricopri per aprire il varco su un qualche immaginario: davanti a noi vediamo soltanto lo scheletro della cornice con tanto di stoffa monocolore, il mondo magico è svuotato del potenziale seduttore, la scena è nuda, all’insegna del famoso «il re è nudo».

Facendo alcuni passi a piedi da Piazza Duomo, sede del Mamming, verso i Portici, si raggiunge la galleria di Merano Arte dove ha sede la mostra con i costumi pensati e creati dalla stessa Frida Parmeggiani. Il titolo in tedesco, Kostümabstraktionen rende bene il concetto sviluppato: silhouette astratte sono piazzate nel vuoto spazio bianco degli ambienti, figure scolpite in stoffa, dalle linee morbide tondeggianti che a tratti sono interrotte da elementi duri, filiformi e spinosi, e fanno da contrappunto nella (quasi) serialità. É la prima volta che Frida lavora liberamente, senza i limiti posti da una sceneggiatura o da corpi che devono portare in giro, animare quindi, questi costumi. Di fatto, essi stessi qui appaiono come creature, vive, nel loro essere muti testimoni di un mondo animato che fu, corpi danzanti silenti, personaggi contrastanti in armonia (vengono in mente sequenze dal Black Ryder, quelle montate in alternanza ai brani di intervista che si vedono nel video al Palais Mamming). Sta qui infatti il lato più affascinante nei costumi inventati da Parmeggiani: nel loro status immobile, nell’essere luminosamente neri o bianchi, essi appaiono ancor più leggeri, mobili, colorati, di come ne abbiamo visti a centinaia sui vari palchi in giro per il mondo. Sembra che qui l’artista Frida che ha da sempre vissuto nella costumista Parmeggiani si sia scatenata nel cercare, creandole, le sintesi più azzardate in una specie di universo quantico all’ennesima potenza.