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Plurilinguismo e miti sfatati

Scuole medie: gli alunni non di madrelingua tedesca o italiana sono fra i più bravi. Lo dice uno studio lungo 3 anni dell’Eurac, il primo nel suo genere in Alto Adige.
Studenti
Foto: upi

Sono trascorsi due anni e mezzo da quando uscì lo studio Kolipsi II dell’Eurac Research di Bolzano che attestò il peggioramento della conoscenze della seconda lingua tra gli studenti delle superiori, destando scalpore nella società altoatesina e riportando a galla le solite strumentalizzazioni politiche. Ora un’altra indagine dell’Istituto di ricerca di viale Druso condotto in questo caso insieme a Centro di Competenza e Centri Linguistici, e stavolta sugli alunni delle scuole medie locali, scardina certezze apparentemente granitiche. “I risultati - dicono infatti i ricercatori - mettono in discussione alcuni punti che politica e società davano per assodati: nelle classi che hanno partecipato allo studio non si nota una relazione tra livello linguistico degli studenti e percentuale di alunni con madrelingua diversa da tedesco e italiano”. 


Uno studio pionieristico


La novità è assoluta: è infatti la prima volta che in Alto Adige una ricerca di lungo periodo (tre anni) analizza i progressi nell’apprendimento di tedesco, italiano e inglese. Un viaggio che parte dal primo anno scolastico e arriva fino all’ultimo, il terzo, e che ha permesso di fornire un quadro evidentemente approfondito sullo sviluppo delle competenze plurilingui.

Dal 2015 al 2018 otto classi di quattro scuole secondarie di primo grado in lingua tedesca e quattro in lingua italiana hanno partecipato allo studio che ha certificato come gli studenti abbiano competenze in altre 20 lingue oltre al tedesco, all’italiano e all’inglese, confermando il fatto che in Alto Adige le scuole stanno diventando sempre più multilingui. Nello specifico sono stati coinvolti in tutto nell’indagine 170 studenti, di cui 87 di madrelingua italiana e 83 di lingua tedesca oltre che 26 ragazzi con bisogni educativi speciali. 111 di questi 170 sono cresciuti in un ambiente monolingue (41 prevalentemente tedescofono, 41 prevalentemente italofono e 29 in un contesto con altre prime lingue); 37 ragazzi in un ambiente plurilingue, mentre per 22 alunni i dati non sono disponibili. Lo studio, composto da test di competenza linguistica, registrazioni audiovisive, questionari, osservazione delle classi, interviste con insegnanti e dirigenti, è una costola del progetto “SMS – a lezione con più lingue” (vincitore nel 2018 del premio Label europeo delle lingue) che studia e promuove il plurilinguismo nelle scuole altoatesine e che è tuttora in atto. 

 

Plurilinguismo e diversità nelle scuole dell’Alto Adige


Pregiudizi molli


Fra gli alunni intervistati per lo studio, quelli con il tedesco come prima lingua hanno frequentato quasi esclusivamente scuole dell’infanzia, scuole primarie e secondarie di primo grado in lingua tedesca. Questo cosa significa? Che gli alunni delle scuole omologhe in lingua italiana non incontrano quasi mai coetanei di lingua tedesca e che il contatto linguistico nel contesto scolastico si limita all’istruzione formale. Contemporaneamente va segnalato un altro dato: all’interno del campione alunni con altre prime lingue tendono ad usare il tedesco e l’italiano più frequentemente al di fuori delle classi rispetto ai loro compagni di scuola con il tedesco o l’italiano come prima lingua.

È opportuno evidenziare poi che nello studio non sono state analizzate solo le competenze linguistiche ma anche diversi altri fattori che possono influenzare l’apprendimento della lingua da parte di bambini e adolescenti, come ad esempio il background linguistico della famiglia, l’uso della lingua nella vita quotidiana, le abitudini di scrittura e lettura e l’uso dei media. Una precisazione è però d’obbligo: “Si tratta di uno studio esplorativo che non consente di trarre conclusioni sulla situazione in Alto Adige nel suo complesso. Tuttavia, i nostri risultati mostrano tendenze e possono fornire lo stimolo per riconsiderare le ipotesi date per certe e osservare il fenomeno più da vicino”, sottolinea la linguista Maria Stopfner, responsabile della ricerca assieme al collega Lorenzo Zanasi.

Particolare attenzione è stata riservata agli alunni che, in famiglia, non parlano nessuna delle lingue insegnate o in cui si insegna e che si trovano quindi ad affrontare peculiari sfide nel proprio percorso formativo. Come spiega Zanasi, quando si verificano le competenze solo in un dato momento va da sé che gli alunni che parlano una lingua come prima lingua sono avvantaggiati rispetto a chi deve ancora impararla. Se invece si prendono come paramento i progressi nell’apprendimento, gli studenti con madrelingua diversa da tedesco e italiano spesso risultano tra i più bravi. Nelle classi molto eterogenee, fa notare Stopfner, gli insegnanti “sentono sempre la pressione di raggiungere il livello dei madrelingua e può succedere che non si accorgano di quanti progressi facciano gli altri studenti. E questo alla fine è il principale obiettivo e compito dell’istruzione”. I risultati dello studio, inoltre, non mostrano legami tra i progressi linguistici di una classe e la percentuale di alunni con altre lingue familiari e lingue d’origine; né si nota un legame con il background professionale dei genitori.

Difficile, a questo punto, non ripensare alle frettolose soluzioni proposte per la scuola da una certa politica, dispensatrice di banalizzazioni. Un esempio è quando, nei concitati mesi successivi alle elezioni provinciali, durante il periodo delle trattative per l’accordo di governo Svp-Lega, il partito del “Prima gli italiani” provò a inserire nel programma di coalizione una voce: test d’ingresso a scuola per stabilire il livello di conoscenza linguistica degli alunni. “Non si tratta di razzismo ma un numero troppo alto di stranieri nelle scuole non permette agli altri studenti di proseguire con il programma e allora è giusto limitare la presenza degli stranieri nelle classi”, aveva detto l’allora capo-delegazione del partito Massimo Bessone. Test che, chiarì poco dopo la Volkspartei attraverso Philipp Achammer, non sarebbero stati introdotti. “Alla luce della presenza crescente di nuove lingue di origine a partire dagli anni '90, l'eterogeneità linguistica non deve essere vista come un ostacolo, ma come una risorsa per imparare gli uni dagli altri - riassumono i ricercatori -. Il plurilinguismo esistente può quindi essere utilizzato come punto di partenza per l'ulteriore sviluppo di modelli scolastici e didattici che rispondano significativamente alle sfide di una società pluriculturale e plurilingue”. Una lezione da tenere bene a mente.