Percorsi incrociati
Uno scricciolo di donna, di grande eleganza col suo cappello di paglia in testa, pantaloni a fiorellini e casacca rosa pastello, Marilù Eustachio non li dimostra i suoi 84 anni. Condivide con Yorgos Sapountzis gli spazi di Kunst Meran/Merano Arte per i prossimi due mesi per una doppia mostra di alto livello artistico-culturale a tutto tondo. La curatrice, Christiane Rekade, ha saputo nel giro di un anno e mezzo (è a Merano Arte dall’inizio del 2017) cambiare aria nella galleria sita nell’edificio della Fondazione della Cassa di risparmio sotto i Portici (al numero 163) conferendole un’impronta nuova, fresca e multiculturale. Rekade possiede un tocco speciale: riesce sempre ad abbinare con grande maestria artisti apparentemente diversi per tecnica e orientamento filosofico riuscendo a portare a galla tanti punti in comune. Così dopo l’intensa mostra della primavera dedicata a vicinanze e lontananze tra Sicilia e Alto Adige sotto il titolo Same same but different, ora tocca all’asse Grecia-Berlino e Roma-Merano.
La famiglia di Marilù si era trasferita poco dopo la sua nascita a Roma, negli anni trenta, ma la madre ha sempre voluto mantenere uno stretto contatto con la sua Val Venosta...
Forse è perché lei stessa è immersa quotidianamente nell’ “inter-azione culturale” (di origine svizzera con marito italiano ha vissuto a lungo a Berlino) che sa cogliere con grande sensibilità dettagli e punti d’incontro/scontro creativo- potenziali negli artisti da lei selezionati?
Guardiamo dunque da vicino le opere esposte di Marilù Eustachio raccolte nel titolo semplice ma pericolosamente ampio nei significati quale Heimat che, se non fosse per il grande amore e rispetto coltivato da questa donna nei confronti dell’Alto Adige e che si rispecchia nei segni tratteggiati sulla carta, potrebbe nutrire vaste e animate discussioni su quel termine tanto abusato quanto di fatto vuol dire semplicemente “sentirsi a casa”. Perché quel titolo? La famiglia di Marilù si era trasferita poco dopo la sua nascita a Roma, negli anni trenta, ma la madre ha sempre voluto mantenere uno stretto contatto con la sua Val Venosta portando con sé la figlia, i cui delicati ricordi si vedono impressi nella serie di disegni riuniti appunto sotto il nome e concetto di Heimat, tutti realizzati (nel 2017) a mo’ di schizzi, silhouette appena abbozzate di alberi e case, o - dominate da certi colori - di montagne e casette minuscole, come appunto può risultare la memoria poetica di una persona. Era tornata spesso nel suo Alto Adige Marilù Eustachio, anche per tenere in vita il vivace contatto con Arnold Tribus il quale dal 1979 al 2000 aveva gestito la galleria Spatia a Bolzano, dove più volte l’attuale direttore del “Tageszeitung” ha esposto le sue opere più diverse. Sì, diverse, di cui si vedono tanti esempi nella fitta parete „omaggio“ all’artista che testimonia il suo molteplice talento: da paesaggi a ritratti a composizioni del tutto astratte. Disegnava sempre e su varie superfici, come ad esempio un’opera datata 2014 appare come incisa su un blocco di un negozio di antiquariato di Monaco, o un’altra monocolore realizzata con strisciate di colore in tonalità blu scuro su una superfice-base di un blu leggermente più chiaro. Per non dimenticare i ritratti, fotografie prese da giornali o riviste ritoccate a modo suo, tra cui citiamo quella dello scultore Alberto Giacometti, anche suo amico, come la filosofa Susan Sontag... Scrive, infatti, Christiane Rekade sul catalogo che nella casa di Marilù a Roma risulta subito evidente il confronto intenso mantenuto per tutta la sua vita con la letteratura, il cinema e ovviamente l’arte e la storia dell’arte. Altra componente del corpus artistico presente a Merano sono le più recenti Carte colorate (o Dissolvenze), totalmente astratte, ridotte a segni essenziali, come accenni di presenze-assenze lontane.
Ed è proprio la presenza-assenza uno degli assi in comune con l’artista greco, Yorgos Sapountzis, che alla sua personale suddivisa sul primo e il secondo piano ha voluto dare il titolo Michsich Hotel. Nuovamente abbiamo a che fare con una persona che dalla natia Grecia era andato a Berlino per passare un semestre di Erasmus come studente per poi decidere di trasferirvisi. Troviamo molta Grecia nelle sue opere precedenti (esposte al primo piano) in cui si dedica con stampe colorate alle (perfette) statue presenti nei diversi spazi pubblici che però troppo spesso non vengono nemmeno più notate da coloro che ci passano davanti, per cui le sue riproduzioni sono statue ridotte a pezzettini, proprio come chi passa velocemente ne coglie giusto un brandello che rientra nella sua visuale.
Yorgos ama confrontarsi con la realtà che lo circonda, quindi per creare le opere nuove per la mostra ha passato una quindicina di giorni nella cittadina sulle rive del Passirio cercando di captarne l’essenza. Ne è nata una installazione che attraversa tutte le stanze del secondo piano con oggetti raccolti nelle cantine di alcuni grandi alberghi o in quella della stessa galleria: sono stati piazzati a poco a poco, giustapposti e allineati sulla base di ispirazioni nate sul momento trasmesse dal luogo di esposizione, ossia dalla sua struttura architettonica. Ecco che attraversare quegli spazi così “arredati” è come entrare in un film astratto per camminarvi in mezzo ai fotogrammi, tra forme colorate, oggetti di uso quotidiano e non, per (farci) narrare una storia, che a ogni giro risulta sempre diversa posando ogni volta lo sguardo su altre connessioni tra oggetti e soggetti cui si riferiscono - un’altra memoria poetica di istanti passati, qui. Si notano due modalità di lavorare dell’artista, da un lato quella “più pittorica” benché si tratti di stampe e/o collage su fogli di giornale intitolati con nomi di ben note città greche (da Naxos a Olympia, a una Sparta-Ebene) e dall’altra le installazioni che per lui sono un modo per condurre il nostro sguardo laddove dapprima il suo si era posato trascinandoci con sé nel suo meraviglioso mondo immaginario. Tanto l’essere umano è presente nelle sue opere situate al primo piano, tanto si nota la sua assenza lungo il percorso dell’intera installazione ridotta alla fine persino a presenze-assenze nostalgiche in alcune sbiadite foto polaroid posizionate su un tavolino da camera d’albergo dopo essere passati davanti a un letto disfatto proprio come se qualcuno ne fosse appena uscito: altra presenza-assenza negli oggetti.
Collocare le cose nello spazio per poterle vedere, ha intitolato Christiane Rekade il suo saggio dedicato all’arte di Sapountzis che la serata d’inaugurazione (il 20 luglio) si aggirava con un elegante pantalone nero con casacca lunga nera e camicia bianca, prontamente disponibile a rispondere alle domande poste da qualche visitatore più curioso di altri. Così ci ha spiegato che le silhouette colorate di forme simili a gocce o corpi abbozzati distesi lui le aveva già cucite ancora a Berlino, mentre a Merano si era trovato una stamperia in cui realizzare altre riproduzioni stampate che a volte appaiono come le ombre di oggetti presenti dal vero all’interno dell’installazione (da qualche vecchio bottiglione in latta per trasportare il latte a statuine in legno di cervi o altri animali).
Lui preferisce “trovare” e “riassettare” nel qui e ora, anche per far dialogare gli oggetti esposti “ora” con il “qui”
Siccome Sapuntzis, classe 1976, queste stampe non le considera immagini, le ha ricoperte con nastri neri a forma di croci in diagonale dopo averle attaccate con chiodi lunghi e grossi per staccarle volutamente dal muro, “oggettivandole”, rendendole in questo modo una sorta di sculture che penetrano nello spazio. Una riflessione artistico-filosofica sul concetto di originale e copia, oggetto e sua immagine riprodotta? Il titolo provvisorio di questa serie che accompagna come un fregio posizionato in alto l’intera installazione attraverso le diverse stanze era Lost sequences, ossia Sequenze perdute. Viene voglia di iniziare a fare a nostra volta qualche gioco di parole del tipo “sequenza” o “conseguenza”? “Perduta” o “per durata”? Certo, si potrebbe dire che l’artista si ispiri al ready made di un Marcel Duchamp, e per continuare nei giochi di parole, potremmo dire che Yorgos, però, non accetta un oggetto già “ready” – ossia pronto all’uso, da esporre – e lo “rilavora” a modo suo, proprio in quanto non lo considera “made” – ossia, fatto. Lui preferisce “trovare” e “riassettare” nel qui e ora, anche per far dialogare gli oggetti esposti “ora” con il “qui”, come ad esempio le finestre di una stanza appaiono in dialogo con le strutture a tubi altrettanto rettangolari delle tele esposte.
Concetto e materia, sguardo e opera, con tanti stimoli in testa usciamo in strada e ci ritroviamo circondati da bar, tavolini e alberghi. La città turistica è a portata di mano, mentre in galleria la ritroviamo sotto forma di brandelli che narrano non la sua storia, ma una storia accanto, ai margini. Ci racconta l’esserci stati. Quell’esserci stati che secondo Roland Barthes si ritrova nelle fotografie… che sempre riproduzioni di attimi di tempo e luoghi sono. E sempre diverse, secondo l’occhio e la mente di chi li vive. Ecco perché ognuno di noi percepisce la realtà attorno a sé in modo diverso e la ricorda in modo diverso.