Politics | Bosnia

Sentirsi di casa a Srebrenica?

Bolzano-Srebrenica, un rapporto che va oltre la cooperazione nell’emergenza. Porta a scoprire gli elementi comuni ai due territori, nella storia e nella vita quotidiana.
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Foto: Salto.bz

Bolzano incontra Srebrenica. E vi trova la sua storia, le sue sfide.

3 luglio 1995: l’improvviso addio di Alex Langer. Pochi giorni dopo l’inizio del massacro. “C’è come una premonizione nei testi e nelle parole di Alex. Aveva intuito, anche dopo la strage di Tuzla del 25 giugno, che sarebbe scattata una fase di inaudita violenza”. A dirlo è Edi Rabini, uno dei fautori dei rapporti tra Bosnia e Alto Adige, fin dai primi anni del dopoguerra balcanico e in modo particolare dal 2005, quando il Premio Langer fu assegnato a Irfanka Pasagic, psichiatra bosniaca, per il suo impegno nella ricostruzione delle relazioni durante e dopo il conflitto.

In questi giorni (24-30 agosto), per la settima volta, ha luogo la Settimana Internazionale della Memoria, organizzata dal Centro di documentazione e dialogo Adopt Srebrenica, dall’associazione Tuzlanska Amica e dalla Fondazione Langer. Cominciato a Zagabria, il percorso è proseguito per Tuzla ed è ora arrivato a Srebrenica, teatro del più tragico episodio di pulizia etnica della guerra di Bosnia. La Settimana culmina nella sottoscrizione di un atto importante per il futuro del Centro di documentazione e dialogo, che è sostenuto da istituzioni pubbliche e private di Bolzano, Pescara, Trieste, Venezia e Cesena, tutte presenti con loro delegazioni. C’è anche Luigi Spagnolli, il sindaco di Bolzano, città capofila nella firma del protocollo.
“Irfanca…”, sussurra Rabini, “è stata lei a guidarci in questi anni, a tenerci per mano, perché andare a Srebrenica è una cosa molto complicata. Io ci ho messo parecchio tempo per capirci qualcosa e per sentirmi di casa”.

Sentirsi di casa a Srebrenica? Ovvero? “Di casa perché molti dei temi che trattiamo lì sono i nostri temi, quelli del Sudtirolo”. Rabini si riferisce ad esempio all’accordo di Dayton per il quale “la diplomazia di allora si ispirò al modello altoatesino. Un modello di pace, contrastato da Langer nella fase di studio, perché consisteva in un ‘Proporzistan’ portato agli estremi. Territori pensati perché ogni etnia avesse un luogo dove poter essere maggioranza”. Una forma di autogoverno in cui “le dinamiche di gruppo prevalgono totalmente sui diritti dei singoli” e che si è dimostrata insostenibile. Ci interroga come altoatesini? “Sì – dice Rabini –, anche se noi ne discutiamo da tempo. Da noi ci sono delle novità, benché la struttura istituzionale rimanga legata a quell’idea”. Un’altra analogia riguarda gli sviluppi storici dei nostri e dei loro dopoguerra.

Oggi Srebrenica è ancora lontana dalla pacificazione. Troppo presto. “È quasi un miracolo – secondo Rabini – che non ci siano più stati episodi di violenza. Ma la tensione è palpabile. La città è politicamente sotto assedio, per così dire”.

Luca Bizzarri è a Srebrenica per conto del Servizio giovani della Provincia: “Arrivati qui – dice – colpiscono molto il senso di contrapposizione e le macerie ancora presenti dopo quasi vent’anni dalla fine della guerra”. Il contatto diretto con la gente è un’occasione importante per misurare il clima della città. “Zora, una delle signore del luogo che ci ospitano – riferisce Bizzarri – ci racconta che qui ‘tutti hanno cicatrici’ e che la convivenza tra serbi e musulmani è cordiale, ma distante. Una convivenza ancora minata dai pregiudizi costruiti ad arte dalla propaganda politica. Per fortuna, poi, la vita si svolge anche nella sua quotidianità con impegno e voglia di superare i traumi e le contrapposizioni. Con questo spirito lavorano le associazioni del territorio che promuovono la Settimana internazionale”.

Gli accordi sottoscritti in questi giorni potranno aiutare molto chi opera per la pace. “Ma ciò che conta di più – afferma Rabini – è che l’Alto Adige scelga di adottare la Bosnia, trovando canali di relazione, e non solo di cooperazione: relazioni tra giovani, insegnanti, storici… Sarebbe un segno di grande innovazione, visto che i rapporti internazionali altrimenti si instaurano solo sull’emergenza e poi le situazioni vengono lasciate a se stesse. Voglio dire: forse non possiamo salvare il mondo, ma almeno alcuni luoghi ce li prendiamo particolarmente a cuore… Diventiamo di casa. Sviluppiamo un rapporto che alla fine sarà anche di utilità reciproca”.