"Siamo fermi da quindici anni"
L'economista Luciano Canova conosce bene il mondo della divulgazione, specialmente quella relativa a temi economico-finanziari. Autore di diversi saggi destinati al grande pubblico, tra i quali spiccano Scelgo dunque sono (2016) e Il metro della felicità (2019), è inoltre docente alla Enrico Mattei School e Research Assistant alla Bocconi. Intervistato da salto.bz ci racconterà lo stato dell'arte dell'educazione finanziaria in Italia e i cambiamenti strutturali di un popolo di piccoli grandi risparmiatori.
salto.bz: Dott. Canova, stando ai report di settore in tema di educazione finanziaria emerge un quadro decisamente preoccupante. Sembra che la causa di questo analfabetismo finanziario, soprattutto in Italia, sia legato in generale alla mancanza di competenze. Lei è d'accordo con questa interpretazione?
Luciano Canova: Le indagini OCSE che riportano i dati sul livello di educazione finanziaria dei singoli Paesi sono incentrate su tre pilastri: conoscenza, attitudine e comportamento. Le misurazioni del livello di padronanza dei concetti finanziari sono valutate secondo varie metriche riconducibili a questi tre campi. Per quanto riguarda l’Italia, è proprio la conoscenza dei temi economico-finanziari a registrare il peggior risultato. I dati sulle conoscenze economiche sono infatti fermi da circa quindici anni, regalando al nostro Paese il posto di fanalino di coda europeo. C’è da dire nondimeno che si sta facendo molto per migliorare questo aspetto. Sia a livello nazionale che locale molte sono le iniziative che puntano ad un cambio di rotta. Personalmente, sul tema delle conoscenze mi aspetto che i numeri inizino a cambiare.
Il punto è che in noi italiani persiste una percezione falsata del rischio. Di conseguenza, l’incompetenza sui temi economici ne esce rafforzata
Perché non sentiamo necessità di formarci in ambito economico-finanziario? Sono temi ritenuti secondari?
No, il punto è che in noi italiani persiste una percezione falsata del rischio. Di conseguenza, l’incompetenza sui temi economici ne esce rafforzata. Il contesto socio-culturale è un fattore chiave per comprendere la situazione in quanto è in grado di influenza la nostra predisposizione di accettare scelte rischiose o meno. Ciò va a modificare la nostra percezione di rischiosità delle opzioni che sono oggetto di valutazione. Conseguentemente, questo si riflette chiaramente anche nei pattern di investimento delle famiglie italiane.
Gli italiani sono rappresentati storicamente come attenti risparmiatori, mentre oggi l’attenzione sembra spostarsi sempre più sui consumi. Stiamo lentamente cambiando?
Come mostra Salvatore Morelli, il mito degli italiani "grandi risparmiatori" sta iniziando a sgretolarsi. Il tasso di risparmio degli italiani si è infatti ridotto sensibilmente. Inizialmente dovuto alla crisi finanziaria del 2008 e alla stagnazione successiva, ora tale andamento sembra essere un effetto della recente stretta pandemica sull’economia. Dobbiamo inquadrare il problema in un’ottica socio culturale. Nei fatti, gli italiani hanno un carattere molto conservatore quando si tratta di approcciarsi al rischio. Tipicamente, le famiglie risparmiano con l’obiettivo di investire nel mattone. Il tradizionale sogno dell’acquisto della casa viene quindi spesso supportato da investimenti a basso rischio. Tali investimenti, si trovano tipicamente nel comparto obbligazionario. Tuttavia, mettere via i soldi e gestirli sono due cose ben diverse. L’italiano medio immobilizza il denaro pensando così di gestirlo, ma non è questo il risultato. In tal modo, i soldi restano fermi a discapito della stessa economia.
Che ruolo gioca la distribuzione della ricchezza?
La distribuzione del reddito è sicuramente un fattore che contribuisce a definire il quadro. Tuttavia, non direi che si tratta del fattore principale, è piuttosto un fattore di complicazione. In pratica, le famiglie già svantaggiate lo sono ancora di più in un contesto di diseguaglianza economica. Una distribuzione del reddito disequilibrata diventa quindi un fattore disabilitante. Non esiste però una relazione diretta che lega la distribuzione della ricchezza con l’esito delle iniziative di educazione finanziaria.
E a livello intergenerazionale?
Allo stesso tempo esiste una disuguaglianza intergenerazionale, certo. La stessa demografia è fondamentale per comprendere bene lo scenario. L’Italia è uno tra i Paesi con l’età media più elevata in Europa e va da sé, la sua popolazione è meno aperta all’investimento. Non solo quindi per un fattore culturale ma anche anagrafico. Tra le varie fasce d’età la percezione del rischio cambia sensibilmente e tende a diventare più conservativa con l’aumentare dell’età.
Da dove è possibile iniziare per avvicinare le persone ai temi ai temi finanziari?
Il primo passo da fare va verso una sensibilizzazione sul tema del rischio percepito: smontare falsi miti e rafforzare le conoscenze al riguardo è fondamentale. Si può partire rendendo chiara la relazione che intercorre tra rischio e rendimento, ad esempio, attraverso la comparazione di strumenti finanziari quali azioni e obbligazioni. In Italia, l’investimento in azioni non è così sviluppato come in altri mercati. Da una parte non c’è la giusta conoscenza di come soppesare rischi e rendimenti dall’altro, una popolazione anziana troppo fortemente avversa al rischio. Inoltre, c’è dello spazio di manovra per lavorare sulla fiducia verso i consulenti finanziari.
Molti eventi del mese dell’educazione finanziaria sono stati dedicati alle scuole, è il giusto posto dove iniziare?
I rendimenti dell’educazione sono di lungo periodo. Oggi non è pensabile lasciare il compito solo alle scuole ma serve più multidisciplinarità. Una parola che va molto di moda ma rare volte si vede messa in atto. Ben vengano quindi le collaborazioni tra scuole e istituzioni, e istituti finanziari. Il gap da colmare nell’educazione finanziaria è profondo. Nutro dei dubbi sull’impostazione del mese dell’educazione finanziaria, che è per l’appunto un singolo evento costretto a vedere luce sono durante il mese di ottobre. Servirebbe piuttosto una soluzione continuativa, lungo tutto l’anno. Fortunatamente ci stiamo già muovendo in questa direzione. Grazie ad economisti come Annamaria Lusardi ad esempio il tema dell’alfabetizzazione finanziaria sta guadagnando terreno. Serve però portare la discussione al centro dell’agenda politica. Quello dell’analfabetismo finanziario è un problema sistemico che va affrontato in modo sistemico, non solo con gli eventi spot. Il nuovo Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) potrebbe essere una buona occasione per aggredire il problema.
Questa situazione la spaventa?
Ci sono tanti professionisti qualificati che fanno formazione trasversale. Per questo motivo rimango ottimista.