Il 5 settembre scorso, all’annuale celebrazione dell’anniversario dell’Accordo di Parigi, avrebbero dovuto essere presenti i due capi di governo di Italia e Austria. Il momento politico, a dir poco intricato, ha indotto sia Draghi che il suo omologo viennese Karl Nehammer a declinare cortesemente l’invito. Mi soffermo, con un certo grado di curiosità, a riflettere su quel che potrebbe succedere se, l’anno prossimo, Bolzano reiterasse la richiesta e l’invito arrivasse quindi anche sulla scrivania di quella che una nota di Palazzo Chigi invita i giornalisti a chiamare senza altre esitazioni, il Signor Presidente del Consiglio dei Ministri, Onorevole Giorgia Meloni.
A vellicare la mia curiosità, prima ancora che la questione, arcidiscussa in queste ore, sulle posizioni in tema di autonomia altoatesina, il come potrebbe definirsi, in quell’occasione, il rapporto tra Austria e Italia sulla tutela della minoranza sudtirolese.
Si tratta di un filone collaterale della controversia altoatesina che si affianca e si intreccia indissolubilmente e costantemente con quello principale riguardante per l’appunto la definizione dei livelli di autonomia come elemento di salvaguardia delle minoranze.
Questione antica, se si pensa che, già all’indomani della fatidica data del 5 settembre 1946, Alcide De Gasperi fu messo duramente in croce dai componenti della delegazione italiana alla Conferenza di Pace di Parigi, non tanto per aver promesso ai sudtirolesi un’autonomia (erano anni, quelli, nei quali il giovane Stato democratico italiano distribuiva statuti autonomistici con una certa larghezza), quanto per il fatto di aver associato alla cosa, con la firma su un documento, uno stato straniero che, secondo loro, sarebbe stato assolutamente meglio lasciare fuori da una vicenda che, sin dai tempi del Duce, era stata seccamente definita come un affare meramente interno.
La questione, come un fiume carsico, torna improvvisamente a galla quando ad andare a fondo fu invece la prima autonomia regionale. All’Austria che, recuperata la piena agibilità politica internazionale, rilancia le istanze dei sudtirolesi, l’Italia oppone per molti anni l’arcigna negazione di qualsiasi diritto di intervento. L’Accordo è stato integralmente eseguito, dicevano i diplomatici della Farnesina, e Vienna non avea più titolo per intervenire. È anche la posizione con cui Roma si presentò nel 1960 all’assemblea generale dell’Onu, dovendo peraltro abbozzare di fronte all’invito dell’Assemblea generale a risolvere il contenzioso attraverso trattative bilaterali.
Inizia allora una fase contraddistinta per molti aspetti da una certa ambiguità. Da un lato Roma continuava a definire come una questione politica di rilevanza meramente interna quella riguardante le richieste dei sudtirolesi di un diverso assetto autonomistico, ma contemporaneamente continuava a trattare, sulle stesse tematiche con gli austriaci, arrivando ad un certo punto perfino a definire con un accordo tra i due Ministri degli Esteri Saragat e Kreisky un’intesa organica sul problema, poi silurata perché considerata insufficiente dalla Südtiroler Volkspartei.
Anche quando la trattativa fu ricondotta sostanzialmente sul binario Roma Bolzano, con i lunghi colloqui tra Aldo Moro e Silvius Magnago, il dialogo diplomatico continuò in parallelo e se le 137 misure del Pacchetto furono il risultato di un accordo interno, ad esse si sovrapponeva necessariamente un calendario operativo concordato dalle due diplomazie per segnare i passi che l’intesa avrebbe dovuto compiere per essere perfezionata a Vienna, come a Bolzano e a Roma.
Mentre di quando in quando, anche dopo l’entrata in funzione della nuova autonomia, nei momenti di maggior pathos polemico, da parte romana riaffiorava l’affermazione secondo cui l’intera questione era solo un affare interno, si andarono ad esaurire i vari passaggi di quel famoso calendario sino a cancellare, nel giugno di trent’anni fa, l’ultimo appuntamento con la consegna al Segretario Generale dell’Onu della famosa quietanza con la quale gli austriaci davano atto all’Italia di aver esaurito l’attuazione degli impegni presi oltre vent’anni prima. Gli stessi impegni, tanto per capirci, che oggi tornano in ballo visto che, secondo Bolzano, una diversa interpretazione giuridica dei poteri di coordinamento e indirizzo statali avrebbe limato fortemente le competenze raggiunte allora.
Uno dei temi che rese intricata e complessa quella chiusura della vertenza fu tra l’altro proprio quello dell’ancoraggio internazionale dell’autonomia altoatesina, oggetto di discussioni e di riflessioni abbastanza complesse anche nell’ambito della stessa SVP.
In questi tre decenni la situazione non è cambiata di molto. Negli ultimi anni sono stati diversi i casi nei quali Roma ha ritenuto di dover notificare a Vienna l’avvenuta definizione di alcune questioni aperte, non ultima quella relativa ai rapporti finanziari con Bolzano.
Che il tema sia ancora di quelli quantomeno controversi lo dimostra però il fatto che l’iniziativa dell’Obmann SVP di recarsi a Vienna, poco prima delle elezioni, per aggiornare gli attuali inquilini della Ballhaus sui possibili rischi di una compressione delle istanze autonomistiche nel nuovo quadro politico che andava prefigurandosi, abbia suscitato commenti indignati da parte di chi l’ha considerata come la richiesta di un’inammissibile ingerenza di un governo straniero nelle sovrane scelte politiche italiane.
Posizione poi contraddetta a stretto giro di posta dal messaggio con il quale il neo Ministro degli Esteri italiano ha voluto rassicurare sollecitamente il collega austriaco sul fatto che la questione del riallineamento al 1992 delle competenze (qualunque cosa questo voglia significare) verrà trattata nei rapporti bilaterali.
Al fondo della questione resta sempre lo stesso problema: se accettare o meno che, con quel famoso Accordo del ‘46 e con tutti gli atti che ad esso sono seguiti sul piano dei rapporti internazionali, l’Italia abbia accettato quella che qualcuno chiama una sovranità affievolita, in Alto Adige, dal diritto di tutela dell’Austria sulle minoranze linguistiche.
Per tutto questo, quindi, sarebbe interessante, tra poco meno di un anno, vedere se e come si svolgerebbe, sulle rive del Passirio, un incontro al vertice tra due capi di governo.