Society | Immigrazione

Per Angela

Non so cosa avrebbe fatto oggi Angela. A quei tempi nessuna di noi si è resa conto che stavamo sperimentando una micro-accoglienza spontanea.
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Mani
Foto: Pixabay

È da un po' che non smetto di pensare ad Angela. A quanto era magra, come un ramoscello d'ulivo; a quanto era amabile come un gheriglio di noce… Angela faceva così e Angela faceva cosà... Mi sono perfino presa la briga di spulciare tra i miei libri e giornali per trovare una foto sua con Luigi. Lei seduta con nobiltà sulla poltrona accanto all'uomo che stava vivendo i suoi ultimi mesi di vita. Assai triste come un salice piegato. Sono passati una ventina d'anni e le memorie vanno e vengono come le maree ma, quando ho adocchiato una foto su facebook che ritraeva una spianatoia con sopra grumi di farina, qualche uovo, tronchetti di burro e di zucca, pezzi di amaretti e due noci moscate, d'un tratto Angela è sorta, si è sollevata dalle brume di Pontevico e si è diretta verso Bolzano infiltrandosi nella mia testa. D'impulso decisi di chiamarla ma subito mi resi conto che l'ultima notizia di Angela risaliva a due o tre anni fa, quando squillò il telefono e dall'altra parte la voce di Teresa, figlia di Angela e amica mia, mi comunicò con un leggero accento lombardo:

- Cara Gentiana, ti chiamavo per dirti che la mamma è spirata ... So che le hai voluto bene, e anche lei ti ha voluto un sacco di bene… Perciò ci tenevo ad avvisarti….

Angela è stata la prima donna anziana che ho conosciuto in Italia. La prima lombarda con il viso lungo come una pera fresca con la quale ho scambiato le prime parole in italiano, quando nell'agosto del 1997 scesi alla stazione di Pontevico con una valigia in mano. Ero clandestina, avevo viaggiato via mare fino al sud dell'Italia, dove mi aspettava il mio compagno. Dopo una notte a Bari eravamo saliti in treno fino a Robecco d'Oglio. Avevamo percorso a piedi il tratto dalla stazione fino a Piazza Mazzini. Ero sfinita, ma quando il mio sguardo colse la visuale della piazza, i bar con i vasi di fiori appesi dall'alto, il mormorio della gente che stava fuori, girai la testa verso mio marito ed esclamai: “ Uau! Che bello!!!”. Lui si mise a ridere. Aveva vissuto a lungo a Firenze, a Milano, per cui sistemarsi a Pontevico era una scelta d'emergenza, l'unico posto dove aveva ripescato lavoro e casa per poter procedere con il ricongiungimento famigliare. Pontevico era un comune di Cremona di 7000 abitanti, più o meno, una pianura circondata da campi e un forte odore di sterco di mucca. Affiancato dal fiume d'Oglio e velato in autunno e in inverno da strati di nebbia, particolarmente detestabile da chi non vi abita.

Comunque fosse Pontevico nel 1997 avevo abbandonato un'Albania ridotta in miseria e sofferente. I cittadini rincasavano appena calava il tramonto e dopo cena, sotto le luci delle candele, si appoggiavano ai muri interni ascoltando gli spari ininterrotti delle bande dei criminali che man mano si "spegnevano" alle prime luci. Durazzo gemeva come una donna ustionata e a brandelli, priva di vegetazione e di sfumature, quasi morente se non fosse per il fascino indiscusso del mare e dei gabbiani. Era ovvio che Pontevico è apparsa davanti ai miei occhi come una goccia di paradiso e la sua piazzetta un'oasi di pace. Da lì prendemmo via Guglielmo Marconi per poi girare a sinistra verso via Dosso. Ci fermammo di fronte al numero 6. Una porta più che normale, con alla sua destra una finestra e una casella postale color marrone. Da quella finestra per due anni avrei aspettato mio marito tornare a casa, sbirciato la gente mentre usciva per fare la spesa o per rinfrescarsi, fuori porta, quando il caldo diventava afoso. Quella volta era notte, avevamo le chiavi ed entrammo cercando di fare meno rumore possibile. Era un appartamento al piano terra di una casa a due piani con due scale. Una interna e l'altra, come vidi in seguito, esterna. Un bilocale con una piccola cucina e una camera da letto. Riguardo quest'ultima ricordo la mia sorpresa quando mi accorsi di un albero di limone che si ergeva ad altezza d'uomo dietro la finestra con vista su un grande cortile comune interno.

L'indomani mi svegliai da sola e rimasi per un po' a letto osservando il limone. Da fuori non si sentiva nessun rumore fino a quando vidi scendere da una scala esterna una dopo l'altra due gambe biancastre. Dopodiché un corpo di donna gracile con un collo lungo e un testa piccola, circondata da capelli bianchi ondulati fino alla nuca, mi apparve tutta per intero. Rimasi ferma senza muovere un dito. Portava con sé un cesto di biancheria e si sedette su una sedia di cui non mi ero accorta prima. Poggiò il cesto su un tavolino rotondo di plastica e si mise a piegare a ripiegare i panni girando di volta in volta lo sguardo verso la mia camera. Non so se si rendeva conto che ci stavamo osservando a vicenda. Aveva 80 anni ed era esile e candida come la carta di riso washi. Timorosa mi alzai in punta di piedi e mi spostai verso la cucina. In quella parte della casa mi sentivo più sicura. Ero una sans papier e non dovevo dare nell'occhio. Dicevano che in queste zone la gente era dura e rozza con gli stranieri, che votava la Lega Nord e andava in cerca di clandestini. Mi sedetti sulla poltrona accanto alla tv e rimasi così come una statua di cera fino a quando suonò il campanello e sobbalzai di panico. Aspettai un attimo con il cuore in gola e mi diressi perplessa verso la porta. La aprii. Non c'era nessuno. Sentii solo dei passi leggeri su per le scale e vidi sul davanzale una canestra piena di frutta.

Mio marito arrivò un'ora più tardi con due trote in mano, e alle sue spalle vidi Luigi. Così ho conosciuto il marito tenero di Angela, l'unica ragione per cui era sopravvissuto alla morte, al caldo torrente e alle notti gelate del Sahara. Si era trovato poco meno che ragazzino a fare la guerra che odiava, a veder perire i suoi compagni uno dopo l'altro, a bere la sua urina per sconfiggere la sete. Al ritorno, stremato e abbattuto, era apparso ad Angela come uno spettro. Comunque, Luigi anziano, amava andare a pesca presso una sorta di palude che lui chiamava laghetto e si godeva la fortuna di aver avuto due figli maschi e una figlia. Spesso si sentivano le voci delle due nipotine che quando andavano su e giù per le scale facevano molta attenzione a non arrecarci disturbo. Certe sere, malgrado i rimproveri di Angela, afferrava la chitarra e si metteva a cantare sul balcone una canzone triste e melanconica in modo che tutti la potessero sentire:

ma tu mi aspetterai, amore amore

e un giorno tornerò, amore amore…

I primi tempi, sua figlia, Teresa, mi portava con sé dappertutto, facendomi vedere la posta e il panificio, la bottega dove potevo gustare i dolci più buoni del paese e dove potevo fare le spese e mangiare dei ghiaccioli squisiti. Per prima cosa mi accompagnò a visitare l'interno della parrocchia di San Tommaso, e così ho visto com'era fatto un oratorio e potuto constatare di persona quant'era misterioso un presepio. Ho provato i tortellini di zucca che mi portava Angela appena stava per arrivare il Natale. Anni dopo, durante una delle sue telefonate, mi confessò:

- Sai Gentiana. Sono stata contraria ad affittarvi la casa. Ero paralizzata dal terrore. Ma ha deciso Teresa di testa sua... Ho tribolato un bel po' e chissà quante sere non ho chiuso occhio. Oggi, appena sento parlare male degli albanesi, mi sento male. Io ho conosciuto voi e per me gli albanesi sono persone meravigliose...

Angela non c'è più. Le cose sono cambiate molto. Ho letto due anni fa di una manifestazione tenutasi a Pontevico contro l'arrivo dei profughi organizzato da CasaPound. Con mia sorpresa, benché la maggioranza dei cittadini voti Lega Nord, pochi dei pontevichesi hanno partecipato. Su 7.800 abitanti mille sono stranieri e una ventina profughi. Non so cosa avrebbe fatto oggi Angela con una coppia di africani, oppure una coppia di siriani, eritrei o curdi. A quei tempi nessuna di noi si è resa conto che stavamo sperimentando una micro-accoglienza spontanea. Nel cuore mio vorrei credere che ci avrebbe messo più tempo, ma che ugualmente avrebbe suonato alla porta e avrebbe posato sul pavimento un cesto pieno con la frutta. Era una lombarda molto discreta, ma il suo fiuto e la sua bontà naturale l'avrebbero spinta una seconda volta, probabilmente in prossimità delle feste, a ricomparire con tortellini grossi e gialli come oro, immersi nel burro e ripieni di zucca e parmigiano. Luigi come di consueto, nonostante le sue sgridate, avrebbe suonato sul balcone la canzone che lo aveva tenuto in vita nei deserti del Sahara, quando marciava verso la sua bramma...

Ma non è questo vivere che accomuna la gente? L'aspirazione genuina di contemplare un albero di limone o l'approssimarsi della foschia, di ascoltare una canzone d'amore una serata particolare, di mangiare cibi buoni in prossimità delle feste augurando il meglio per tutti?