Society | Le bufale in rete

Le bufale in rete che ci piaccono tanto

Per riconoscere una bufala, bisogna essere in grado di guardarsi allo specchio, con onestà.
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Foto: upi

Funziona così: navigando per la rete, leggiamo un articolo da un giornale online, oppure, un post da un blog (ormai la distinzione tra le due fattispecie è labile); l'argomento è affrontato in modo coerente con le nostre idee in materia; decidiamo di leggerlo o condividerlo attraverso un social network e il procedimento si ripete diverse volte con articoli o post che gratificano le nostre idee.

Quindi, i complessi algoritmi della rete che governano le inter-relazioni tra sistema di selezione delle informazioni e social network individuano le nostre predisposizioni alla lettura e ogni volta che accediamo alla rete - da qualsiasi finestra ciò avvenga - ci verranno proposte in maggioranza letture, appunto, coerenti con le nostre idee preesistenti.

Cercare per una settimana se nella carbonara si mette o meno l'aglio, significa venire immediatamente invasi da ricette di ogni tipo, fino alla telefonata di chi vorrebbe venderci un ricettario: «provare per credere!».

L'effetto pratico di questo procedimento al quale inconsciamente ma volontariamente ci sottoponiamo è che in noi finisce per rafforzarsi la convinzione di «pensarla nel modo giusto» e spesso in modalità anti-sistema. Proprio perché la massa di informazioni e condivisioni sociali che ci arrivano in quella direzione creano la percezione di partecipare con molti altri alla definizione di una «verità». Questo processo ci gratifica in quanto ci fa sentire capaci di produrre conoscenza, e in modo alternativo.

Se questo procedimento fosse governato da logiche democratiche, meritocratiche, scientificamente appropriate, la rete sarebbe un magnifico strumento per un esemplare processo di acculturazione della masse.

Invece, la rete è anarchica, ha bisogno di guadagnare per auto-generarsi e, per alimentare i suoi contenuti, sfrutta alcune caratteristiche della psiche umana. Quali sarebbero queste caratteristiche psichiche intrappolate nella rete e da questa sfruttate?

Pensiamo a una semplice comunicazione tra persone che, per ipotesi, non frequentassero la rete. Verosimilmente i discorsi si agglomererebbero sull'asse «critica verso la classe politica, verso il tempo, verso il familiare, verso il comportamento di altri esseri umani, verso fatti accaduti, verso la vita ecc...». Infatti, è esperienza comune constatare che nelle comunicazioni interpersonali, lo spazio concesso al discorso «positivo» è di solito limitato e confinato al racconto interpersonale. Difficilmente in un dialogo tra amici, conoscenti o nel corso di incontri casuali, il tempo dedicato al racconto positivo supera quello dedicato alla recriminazione, lamentela, rammarico ecc...

Questo accade perché la comunicazione sociale di questo tipo assolve la fondamentale funzione di sfogo emotivo delle ansie e delle paure soggettive e, in qualche modo, da noi soggettivate.

Chi costruisce quegli algoritmi che decidono, scrutando giornalmente la nostra attività in rete, quali notizie debbano avere la precedenza nell'apparirci in «Home», sa che solo quando questa dinamica si avvera perfettamente, allora la probabilità che alla singola unità informativa (post o articolo che sia) venga associato un alto numero di visualizzazioni o like aumenta esponenzialmente. E questo produce denaro, e tanto.

Un esempio pratico per chiarire il concetto.

Il sito www.voxnews.it pubblica la seguente notizia dal titolo «Arezzo: Orge gay tra profughi davanti ai bambini». L'articolo scatena cognitivamente l'indignazione del lettore, appunto, toccando il tema non negoziabile della inviolabilità del bambino. Nel titolo, però, compare anche la parola «profughi», associata ad atti deprecabili compiuti davanti a minori. I social network, in genere, producendo informazioni selezionate per ogni utente, tenderanno a mettere in risalto questo tipo di notizia-associazione (pratica deprecabile-immigrato-minore) proprio a quegli utenti che già hanno manifestato una certa attitudine negativa, principalmente verso il fenomeno migratorio. Quindi, quegli utenti, altro non faranno che accogliere cognitivamente in modo positivo l'esistenza di un fatto di cronaca, coerente con il loro punto di vista negativo verso il fenomeno migratorio e, nello specifico, verso il comportamento dei migranti.

La gratificazione prodotta da questo processo è responsabile della modalità di assorbimento soggettivo della notizia appena acquisita.

L'accuratezza della stessa, la riscontrabilità delle fonti, la puntualità della cronaca del fatto, non incidono sul processo cognitivo che associa a quella notizia un valore soggettivo di «verità». In poche parole, è sufficiente che la notizia confermi il mio post-giudizio verso l'argomento per renderla del tutto attendibile.

Invece, da una semplice analisi del testo in esame, emerge una assoluta genericità del racconto che non viene presentato sotto forma di cronaca secca e non presenta alcuna fonte esterna. L'articolo parla di un centro di accoglienza, senza specificare il momento del presunto fatto, aggettiva ripetutamente in modo soggettivo i presunti protagonisti «due fancazzisti», virgoletta affermazioni senza specificare dove e a chi sarebbero state fatte, parla di testimonianze senza spiegare dove e come sarebbero state raccolte. Inoltre, parla di manifestazioni di piazza, senza alcuna documentazione specifica sui manifestanti.

Infine, propone una foto di copertina nella quale raffigura l'ex premier, Matteo Renzi, sorridente di fronte a una cartina raffigurante barche che approdano le nostre coste, e chiude l'articolo ipotizzando l'arrivo di altri profughi nel centro accoglienza in questione con la chiosa finale «Ma no, solo orge gay più numerose».

In verità, la notizia potrebbe essere vera (ma veicolata in modo non professionale) o del tutto inventata, oppure, verosimile ma infarcita di aggettivazioni, opinioni e virgolettati non verificabili.

Di solito, questo tipo di unità informative, vengono ricalcate, con lievi modifiche, da altri organi di informazione che condividono la stessa linea editoriale, ovvero, ideologia di riferimento, producendo artificiosa credibilità alla stessa unità informativa.

La lettura e condivisione in massa di queste unità informative, assolve almeno due funzioni: rafforzare un sentimento anti-immigrato che la testata, ovvero, l'autore dell'articolo (omesso) palesemente vuole veicolare e grazie a questo taglio editoriale ottenere da quanti più utenti appartenenti a questo particolare tipo cognitivo like e/o condivisioni. Infatti, le agenzie di pubblicità pagano gli inserti pubblicitari in giornali online e blog proprio in relazione al numero di like e condivisioni che questi possono vantare, generando utili per i loro proprietari.

E le unità informative che, appunto, sfruttano alcune basilari caratteristiche comuni alla psiche umana di una grande fetta della popolazione, già sopra esposte, sono quelle che meglio si prestano al procedimento.

Quindi, come uscire da questo meccanismo?

Semplice da dire, complicatissimo da accettare.

Quando leggiamo una notizia da un organo di informazione, controlliamo se la notizia è stata data (e in quale modo) da altri tipi di media, assicurandoci che tra questi ci siano quotidiani/emittenti/blog che non abbiano una linea editoriale politica simile alla nostra fonte primaria.

Questo procedimento, è necessario soprattutto se la notizia è particolarmente gradita dal nostro sistema di valori e credenze. Certo, è un esercizio difficile che porta a cestinare tra unità informative, anche quelle le quali ci piacerebbe credere siano vere. Ma lo facciamo già tutti i giorni, in altri ambiti e situazioni, quando qualcuno mette la mano al nostro portafoglio. Allora li si che diventiamo sospettosi.

In soldoni: se due, tre, quattro o più persone ci dicono che siamo brutti e sciupati, e abbiamo bisogno di un trattamento estetico, ma noi sappiamo che da quella valutazione dipende la fonte dei loro guadagni, forse, la credibilità di quella opinione non risulterà elevata. Allora, ci guardiamo nello specchio, e buttiamo nel cestino il depliant in questione, come dovremmo fare per tutte le bufale in rete, soprattutto quelle che ci piacciono. 

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Massimo Mollica Thu, 06/29/2017 - 21:31

Mi permetto di commentare in quanto appassionato di informatica, campo nel quale lavoro da sempre. Io praticamente ho vissuto il periodo dalla nascita di internet. Ho visto l'epoca delle chat irc, e via di seguito le successive mode di comunicare fino ai giorni nostri.
Personalmente trovo forzata, anche se ben esposta, la chiave di lettura dello scrivente.Una risposta semplicistica al fenomeno delle bufale. Penso che il tema sia prettamente sociologico, con sfumature di natura informatica. E pur non essendo uno sociologo ho provato pure io a dare una risposta al fenomeno delle cosiddette fakenews.
Credo che la tesi dell'autore sul compiacimento di certe notizie sia certamente fondata. Ma la causa predominante sia un'altra. E la causa principale la possiamo ricavare guardando al passato. E più precisamente partendo dal 1938, con il sceneggiato
radiofonico War of the Worlds: "Molti radioascoltatori - malgrado gli avvisi trasmessi prima e dopo il programma - non si accorsero che si trattava di una finzione, credendo che stesse veramente avvenendo uno sbarco di extraterrestri ostili nel territorio americano" (da Wikipedia). Del resto la stessa cosa si ripeté con la televisione nelle forme più disparate. E ancora oggi spesso trovi gente che sostiene la veridicità dei fatti per il sol fatto di vederle in TV (si penso solo banalmente ai protagonisti pseudo reality di qualche programma TV, ma anche a programmi come "dalla parte vostra", ad uso e consumo di una certa parte politica). La stessa cosa succede in internet. E penso al periodo dove spopolavano le email fasulle per spillare soldi e molte, moltissime persone ci sono cascate. E siamo sempre lì. L'ignoranza del mezzo di comunicazione che utilizzi e in parte la poca propensione a cercare di ragionare in base alle tue conoscenze/cultura.

Thu, 06/29/2017 - 21:31 Permalink