Culture | Recupero debiti

Metodo trentino

Gentile dottoressa Viviana Sbardella, mille volte meglio ripetere l'anno che trascinarsi dietro i debiti di recupero in recupero.
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Egr. Direttore,

mi conceda di partecipare all’interessante dibattito sul “recupero debiti” che ferve da alcuni giorni nella scuola trentina. L’argomento non è cosa da poco trattandosi di uno dei tanti aspetti collaterali di una ferita che da mezzo secolo ormai destabilizza la scuola italiana costringendo chi opera in essa su posizioni di perenne contrasto: la scuola deve o non deve selezionare? diploma a tutti o solo a chi se lo merita?

Se la riflessione critica sul “metodo trentino” di riparare alle insufficienze scolastiche contenuta nella sentenza del Tar (ricorso della studentessa del da Vinci non ammessa all’Esame di Stato) ha riacceso gli animi, non è per la sua originalità, ché ogni persona normalmente assennata avrebbe potuto formularla tanto è ovvia nella sua banale evidenza, ma perché questa volta – cosa mai successa prima – non sono stati i soliti guastafeste a mettere il dito nella piaga, ma dei magistrati. Non si può – questa è in sostanza la loro riflessione – aggravare di studio uno studente perché ripari a dicembre le lacune in una materia che già a settembre non era riuscito a colmare e nel contempo pretendere che progredisca nella conoscenza della stessa.

L’obiezione è stringente. Non è un caso che la Sovrintendente scolastica provinciale, dottoressa Viviana Sbardella in “Il recupero dei debiti, la scuola trentina funziona” (il T quotidiano del 19/8) abbia sentito la necessità di difendere il metodo provinciale dallo scetticismo di questi imprevisti, quanto autorevoli, critici.

Compito temerario il suo, visto che per spiegare a chi – come i magistrati – non le ha vissute in prima persona le vicissitudini pedagogico-didattiche che hanno operato in favore del metodo “verifiche ad oltranza, ma niente bocciature” rispetto a quello tradizionale dell’esame di riparazione – che sono poi le stesse che col tempo hanno ridotto tutti gli esami scolastici, compreso quello di maturità, a pura formalità – è giocoforza svelarne i principi ispiratori che, non tutti sanno, risalgono a quella “grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale che è stato il ’68” e che oggi potrebbero aver perduto quell’adamantina forza persuasiva che allora parevano avere, indebolendo gravemente l’argomentazione difensiva della dottoressa.

Da noi – questo è in sintesi il suo ragionamento – il rigore e la serietà sono forse meno visibili che nel resto d’Italia, ma più solidi ed efficaci; è vero che non si boccia, preferendo dare ai recuperanti dopo quella di settembre una seconda possibilità a dicembre e in alcune scuole anche una terza, ma così facendo ogni ragazzo viene responsabilizzato e spronato a provvedere alle proprie mancanze; da loro (resto d’Italia) la severità è solo di facciata, l’esame (94% di promossi) è una sorta di condono grazie al quale tutti, o quasi, passano nella classe successiva e le carenze finiscono nel dimenticatoio.

Disarmante semplificazione: troppo comodo accampar ragione modificando i termini del problema: è ovvio che un recupero sia più efficace di un condono, ma qui si voleva dimostrare che fosse più efficace di un esame (selettivo).

Promuovere è più facile che bocciare ma non si può permettere – chi lo nega è in mala fede – che ne abbiano pregiudizio il programma, la qualità della conoscenza e la progressione di chi non ha debiti che lo ostacolato. Certe discipline non accrescono solo la conoscenza, sono fondative di altre e costitutive del pensiero: mille volte meglio ripetere l’anno, anche per una sola di esse, piuttosto che trascinarsi dietro le lacune di verifica in verifica. Oggi si è perso il senso di cosa sia un vero esame: gli unici degni di questo nome sono rimasti quelli per la patente di guida e per l’abilitazione all’esercizio delle professioni che, guarda caso, registrano mediamente la stessa percentuale di bocciati, il 25%, un candidato su quattro (uno su mille sono quelli all’esame di maturità). E sì che senza selezione niente ascensore sociale, unico strumento di emancipazione per chi ha soltanto doti intellettive su cui contare.

A invalidare i principi pedagogici sessantottardi – l’argomentazione della dottoressa ne è costellata: “inclusione”, “equità”, “pari opportunità”, “successo formativo”, "stato sociale di provenienza": parole-talismano buone soltanto a tenere aperta la ferita del perenne contrasto – stanno i risultati che hanno prodotto: ogni persona di buon senso li vede da sé con i propri occhi.

Invio alla Sovrintendente poche righe di prosa asciutta e realistica di don Milani che avendoli inventati quei principi, aveva ben chiaro il limite entro cui esercitarli: “La scuola dell’obbligo non può bocciare” perché qui “ognuno ha un diritto profondo ad essere fatto uguale”. Ma “alle superiori bocciate pure” perché qui “si tratta solo di attribuire delle abilitazioni: si costruiscono cittadini specializzati al servizio degli altri, si vogliono sicuri”.