Culture | Teatro

Più in Alto

Tre donne, tre visioni, un'unica battaglia. ”Più in Alto" esplora la libertà femminile tra poesia, conflitto e autodeterminazione.

Foto
Foto: Più in Alto
  • Un solo giorno di protesta non ci basta più: al Teatro Comunale di Gries, il 26 novembre è andato in scena “Più in Alto”, uno spettacolo di ControTempo Teatro scritto da Isma Forghani e diretto da Flora Sarrubbo. Sul palco, le intense interpretazioni di Diletta La Rosa, Marta Marchi e della stessa Flora Sarrubbo hanno dato forma a una riflessione incisiva e attuale sulla condizione femminile.
     

    Il testo ruota attorno alla storia e alle idee di tre figure femminili straordinarie


    Forse non è casuale la scelta di mettere in scena lo spettacolo il giorno dopo il 25 novembre, la giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Parlare di donne e delle loro battaglie è fondamentale e lo è soprattutto il giorno dopo come lo è ogni altro giorno, per ricordarci che l’attenzione non deve e non può spegnersi una volta terminata la ricorrenza. "Più in Alto" diventa così un’importante occasione per mantenere vivo quel discorso e ricordarci la necessità di continuare a riflettere sulle conquiste e sulle lotte ancora necessarie. Tutto l’anno.
    Il testo ruota attorno alla storia e alle idee di tre figure femminili straordinarie: l’attrice Sarah Bernhardt, la femminista Marianne Heinisch e la poetessa Táhirih. Tre donne provenienti da culture e contesti diversi, unite dalla loro incrollabile determinazione nel ridefinire il ruolo della donna all’interno società. Al centro del racconto un serrato dialogo sulla questione femminile, che esplora il tema della libertà e dell’autodeterminazione e del percorso necessario per raggiungerle.

  • Foto: Più in Alto

    Sarah Bernhardt (Diletta La Rosa), la divina, incarna l’idea di una libertà femminile sfrontata che si fa strada attraverso il corpo. La celebre attrice francese si serve della sua immagine per sfidare le convenzioni del suo tempo, utilizzando il corpo come simbolo di emancipazione, rendendolo strumento di comunicazione artistica e sociale e quindi, di lotta politica.
    Questa visione si scontra in scena con quella di Marianne Heinisch (Marta Marchi), attivista austriaca per i diritti delle donne, che vede nell’ostentazione del corpo un rischio: il pericolo di trasformare il femminile e la sua lotta in un oggetto di consumo, di ridurre la donna a una mera immagine anziché valorizzarne il pensiero e la voce. Per Heinisch è lo studio lo strumento di emancipazione capace di liberare le donne dal giogo della loro condizione.
    Il dibattito al centro di “Più in Alto” è più che mai attuale e ci pone di fronte a una spinosa domanda: esiste un femminismo giusto? Oggi, in un mondo sempre più polarizzato, emergono numerose divisioni all’interno del movimento e il dibattito è più vivo che mai. Alcune donne rivendicano la libertà di vivere il proprio corpo e la propria sessualità senza vergogna come arma di emancipazione, vedendo in questo una sfida al male gaze, lo sguardo maschile che per secoli ha deciso come e quando sessualizzarle. Ora sono loro a dettare tempistiche, luoghi e modalità. Altre femministe, considerano questa posizione controversa, percependola come la conferma di un sistema che costringe le donne a ribadire la propria femminilità attraverso un corpo seducente, rendendo la battaglia meno incisiva. La verità è che non esiste una risposta giusta o univoca: la libertà è personale e ciascuna donna lotta con il proprio corpo, i propri mezzi e con le proprie idee.
     

    In scena, queste tre figure simboliche si intrecciano in un racconto che non solo celebra la loro eredità, ma invita il pubblico a riflettere sulla lotta per l’uguaglianza...


    È proprio questa molteplicità di visioni il fulcro dello spettacolo. Il confronto tra le protagoniste, apparentemente in opposizione, si rivela costruttivo e illuminante: entrambe, con approcci diversi, condividono lo stesso scopo cioè quello di costruire un futuro in cui le donne possano essere protagoniste consapevoli, attive e autodeterminate.
    A mediare e ampliare questo dialogo interviene Táhirih, solenne e ieratica, una presenza che risuona di forza e poesia. Táhirih, poetessa e martire iraniana dell’Ottocento, si impone non solo come un ponte tra le due visioni delle protagoniste, ma come un simbolo universale di libertà e conoscenza. La sua voce struggente, carica di intensità, invita a riflettere tramite le sue poesie sul potere trasformativo della cultura e del sapere, strumenti per l’emancipazione femminile. Nel contesto dello spettacolo, la sua presenza è cruciale anche a livello visivo e ritmico: i momenti in cui appare spezzano la narrazione, introducendo frammenti visionari di poesia. Táhirih non è solo un personaggio, ma un’anima che guida e arricchisce l’intero dialogo, elevandolo a una dimensione universale, oltre le divisioni.
    In scena, queste tre figure simboliche si intrecciano in un racconto che non solo celebra la loro eredità, ma invita il pubblico a riflettere sulla lotta per l’uguaglianza, una lotta che, seppur in forme diverse, rimane attuale e più che mai urgente.