La negazione del cognome
Spesso in articoli, convegni, trasmissioni si assiste alla continua negazione del cognome per gli esponenti del genere femminile. Se da un lato gli uomini vengono chiamati per cognome, accompagnato quasi sempre dalla qualifica, la stessa sorte non tocca alle colleghe donne: private del cognome e spesso anche della professione, si vedono rappresentate solamente come uno stuolo di Sara, Michela, Giovanna…amiche della porta accanto alle quali dare del tu e rivolgersi in caso di necessità culinarie.
La costante riduzione al solo nome evidenzia come per le donne ci sia sempre una diminuzione della ragione sociale: il cognome rappresenta infatti la propria identificazione nei contesti non familiari, il modo in cui ci si rivolgere alla persona negli ambiti più formali, lavorativi o studenteschi e con il quale si sta in società al di fuori dalla cerchia di amici. Ricorrere al primo nome diventa quindi un espediente per non riconoscere professionalità o individualità, la perfetta scusa per perdersi nella confusione dei vari nomi di battesimo. Se poi per molti il modo migliore per citare una donna è in base alla sua funzione, e quindi in quanto moglie e madre, anche in questo caso si assiste alla persistenza del nostro retaggio patriarcale, perché ad essere utilizzato è sempre il patronimico. Se è la moglie a prendere il cognome del marito, così i figli ereditano il cognome paterno, in un automatismo che vige ancora oggi.
E il cognome materno?
Nel 2016 una sentenza della Corte Costituzionale è intervenuta a modificare parzialmente questo regime, ma, a 5 anni di distanza, manca ancora una legge che renda il cambiamento più organico e armonizzi le nuove regole con il resto della disciplina. Già nel 2014 l’Italia venne condannata dalla Corte EDU per aver violato il principio di non discriminazione, poiché la regola di attribuzione del solo cognome paterno rappresenta l’ennesima inottemperanza alla parità tra i sessi. Nel 2016 ad esprimersi è stata la Corte Costituzionale, la quale mediante la sentenza 286 ha riconosciuto nuovamente la discriminazione ed è intervenuta a modificare, almeno in parte, la disciplina legislativa. La sentenza 286 ha infatti aperto alla possibilità di registrare i nuovi nati con entrambi i cognomi, auspicando però un intervento più organico da parte del legislatore. Come spesso accade la Consulta arriva a pronunciarsi su questioni ignorate dal Parlamento: costantemente rinviati e mai veramente esaminati, i cambiamenti in materia di diritti civili rimangono in fondo all’agenda dei partiti, nonostante le spinte provenienti dalla società.
Come recentemente avvenuto per il DDL Zan, si assiste all’indifferenza verso una compagine sociale, soprattutto verso la sua parte più giovane, che è vivace, diversa e più attenta alle richieste di maggiore inclusione e più preoccupata per le questioni di genere. L’intervento della Corte infatti non è risolutivo, ma il Ministero ai è espresso solamente attraverso una circolare, per chiarire le procedure di registrazione: i coniugi possono iscrivere i figli con il doppio cognome, quando vi è un accordo tra i genitori, aggiungendo il cognome materno a quello paterno. L’attuale formulazione però nulla dice in caso di disaccordo, mantenendo quindi il vecchio regime di automatismo del patronimico e facendo ancora prevalere la figura del padre rispetto a quella della madre. Altra prevaricazione riguarda proprio l’aggiunta del cognome materno, che indica una piccola deroga concessa al madre, la quale non potrà scegliere se anteporre o posporre il suo cognome, comunque destinato a seguire.
La disciplina italiana potrebbe prendere spunto da quella di diversi stati europei, che da tempo hanno introdotto questa possibilità e che prevedono delle soluzioni normative in caso di disaccordo, come in Francia in cui è mantenuta la semplice quanto risolutiva possibilità di procedere in ordine alfabetico o di far scegliere ai figli, una volta cresciuti, quale cognome trasmettere alla propria prole per evitare l’accumularsi di una lunghissima sequela di nomi di famiglia. Nonostante questa nuova previsione sia ormai in vigore da anni, non ha però goduto di molto successo.
Nei vari comuni infatti poche coppie sono ricorse alla doppia registrazione e nel comune di Bolzano la tendenza sembra seguire quella del resto d’Italia. Anche nel territorio bolzanino infatti il fenomeno interessa una quantità residuale di genitori, senza particolari distinzioni d’età o particolari differenze tra coppie sposate o conviventi. Uno dei motivi dell’insuccesso delle modifica è da attribuire alla scarsa pubblicità e alla poca chiarezza della nuova formulazione, che sembra diventata uno strumento per accontentare le madri, senza riconoscere loro un pieno diritto. La presidente del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati auspica che la nuova legge possa essere approvata entro il 2023, termine della legislatura, ma, considerata l’eterogenea maggioranza e i continui rinvii sulle questioni riguardanti i diritti civili, possiamo essere incautamente pessimisti.