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Peroni: l’uomo amico degli Inuit

Abitare a Tasiilaq significa scegliere di stare nel presente, accettare le difficoltà della vita e scontrarsi con le conseguenze dell’arroganza dell’uomo bianco.
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Foto: The Red House

Dopo aver visto “The Red House” – il documentario del regista italiano Francesco Catarinolo in concorso al Trento Film Festival 2021 – ho letto molto di Robert Peroni e della “sua” Casa Rossa, un rifugio-albergo per esploratori e turisti. Girando in rete, si trovano molti articoli che parlano della difficoltà di un italiano, Robert, isolato in Groenlandia durante il Covid e costretto a mangiare cibo scaduto, del progetto della Casa Rossa – luogo dove i locali lavorano e i turisti soggiornano –, dell’affascinante e curiosa vita di Robert. Mi è dunque chiaro chi l’ex alpinista ed esploratore altoatesino trasferitosi in Groenlandia Orientale negli anni ’80, ma chi sono gli Inuit e qual è la loro storia?
L’immaginario della Groenlandia è fatto di novantanove parole per dire neve, di igloo, di paesaggi bianchi e orsi polari. Come tutti gli immaginari, anche questo si discosta dalla realtà che invece è fatta di politiche colonialiste, dipendenze, elevati tassi di suicidi, abusi. Dei disagi, questi ultimi, che per essere capiti devono essere contestualizzati. Innanzitutto è necessario ricordare l’esperimento sociale fatto dalle autorità danesi, che, in collaborazione con la sezione locale di Save the Children e la Croce Rossa, nel 1951 separarono ventidue bambini tra i cinque e i dieci anni dalle loro famiglie senza un chiaro consenso dei genitori. A bordo di una nave partita da Nuuk i bambini raggiunsero la Danimarca per ottenere un’educazione “all’europea” e così facilitare una modernizzazione della Groenlandia una volta tornati nella terra natale. A un anno di distanza dalla loro partenza, sedici dei ventidue ragazzini fecero ritorno a Nuuk ma non si riunirono con le famiglie: furono portati in una sorta di istituto costruito dalla Croce Rossa in modo tale che non perdessero le abitudini e la lingua imparate in Danimarca. Sei dei ventidue ragazzini furono invece adottati dalle famiglie affidatarie danesi nonostante i loro genitori fossero ancora in vita. Nel 2020, sessantanove anni dopo quello che sembra essere stato un sequestro di stato, sono arrivate le scuse della prima ministra danese Mette Frederiksen. L’impronta europea sui più piccoli è continuata dagli anni ’60 in poi con l’obbligo per i giovani Inuit di trascorrere uno o due anni in Danimarca per imparare la lingua.

L’arroganza con cui l’occidente ha cambiato la vita del popolo Inuit si scorge anche dal modo in cui è stato imposto il divieto alla caccia alle foche introdotto nel 2010 in risposta ai massacri dei bracconieri in particolare in Canada. L’impatto sulle economie di sussistenza è stato catastrofico: il parlamento europeo ha dimostrato di non essere interessato al modo di vivere degli Inuit, un modo di vivere estremamente differente da quello occidentale bianco e che vede nella caccia alle foche da pelliccia un’attività antica nonché fonte primaria di reddito. Ritrovandosi senza lavoro e senza una ragione esistenziale – in questo caso il lavoro assume una valenza che va oltre l’occupazione essendo la caccia un modo di condurre la vita –, molti cacciatori hanno sviluppato dipendenze e forme di depressione. La lotta contro l’eccidio delle foche è stata capeggiata da Wwf e Greenpeace: entrambe le organizzazioni (Wwf per prima) hanno ammesso di aver sbagliato le modalità tanto che in un comunicato stampa del 2014 la direttrice esecutiva di Greenpeace Canada, Joanna Kerr, ha ammesso che: “La nostra campagna ha fatto del male a molti, sia economicamente che culturalmente. Sebbene diretta contro la caccia alle foche a fini commerciali, e non su piccola scala, come quella di sussistenza effettuata dai popoli indigeni e costieri del nord, non abbiamo sempre comunicato questo con sufficiente chiarezza, e le conseguenze, pur non intenzionali, sono andate molto aldilà”.
Infine, il 6 aprile 2021 in Groenlandia si sono tenute le elezioni parlamentari il cui esito ha dato forma all’opposizione verso il progetto di estrazione dell’uranio e delle terre rare (minerali ed elementi chimici usati in settori strategici) nel sud del paese. La campagna elettorale si era, infatti, incentrata sull’avvio dello sfruttamento di una miniera nella zona di Kuannersuit gestita dall’azienda australiana Greenland Minerals e controllata all’11% da un conglomerato statale cinese Shenghe Resources. Pur trovandosi ai “confini del mondo”, la Groenlandia riscuote molto interesse da parte delle potenze mondiali grazie alla sua ricchezza mineraria: il graduale scioglimento dei ghiacciai che occupano la maggior parte della superficie groenlandese dovuto al riscaldamento climatico potrebbe, infatti, portare alla luce possibili giacimenti minerari.

Con le immagini di “The Red House” negli occhi e queste informazioni in mente, chiedo a Robert Peroni cosa sia davvero la Groenlandia, chi siano gli Inuit e perché proprio a Tasiilaq abbia trovato un luogo da chiamare “casa”.

salto.bz: In danese si usa dire “essere ubriaco alla groenlandese”, un’espressione che sembra avere un portato maggiore rispetto al suo significato letterale. Robert, ti è mai capitato di percepire una forma di arroganza, presunzione da parte dei danesi verso il popolo Inuit della Groenlandia?

Robert Peroni: Quarant’anni fa, quando sono arrivato a Tasiilaq, l’arroganza dell’uomo bianco era smisurata. La gente di qui veniva considerata alla stregua delle bestie. Ora la situazione è cambiata molto, sebbene sia ancora possibile percepire un atteggiamento di superiorità da parte di qualcuno. Di sicuro chi arriva oggi in Groenlandia orientale ha un interesse e un’apertura mentale differente rispetto a chi arrivava un tempo con l’unico scopo di lavorare.

Rispetto alla caccia alle foche, la mia posizione è ambivalente: se da una parte posso ritenere giusto il divieto alla caccia, dall’altra mi rendo conto che il mio rapporto con gli animali e con la natura è molto differente rispetto a quello degli Inuit. Vivo in una società dove i cani hanno il cappottino per il freddo e allo stesso tempo le persone vengono lasciate morire in mare. Quanto c’è di ipocrita nella scelta di proibire un mestiere e contemporaneamente permettere gli allevamenti intensivi (in questo caso mi riferisco ai metodi di allevamento e produzione europei)?

Io non sono favorevole alla caccia eppure trovo ipocrita la scelta di vietare la caccia alle foche quando la maggior parte degli europei non conosce l’origine della carne che mangia. Le condizioni dei suini negli allevamenti danesi o quelle dei pulcini nei capannoni in giro per l’Europa sono molto peggiori rispetto a quelle delle foche locali. È necessario ricordare che qui, una terra di ghiacciai e iceberg, non ci sono molte alternative oltre alla carne di foca. Inoltre, la caccia stessa è concepita in modo differente rispetto a come sono abituati gli occidentali: qui si caccia solo quello che si mangia, si caccia per fame. Quando si uccide un orso bianco, lo si prende per le orecchie, lo li guarda negli occhi e ci si scusa spiegandogli che lui è stato un esempio per come sopravvivere all’inverno: “Oggi sono più forte io e io oggi ho fame.  Scusa e grazie”.

Come raccontato nel documentario “The Red House”, la depressione e il suicidio giovanile sono una vera emergenza. Diverse ragazze hanno parlato di abusi sessuali e c’è chi ha ammesso la difficoltà di chiedere aiuto per la mancanza di strutture adeguate. Qui in Italia, dopo un video diffuso in rete di Beppe Grillo a difesa del figlio accusato di violenza sessuale, per qualche settimana si è tornati a parlare di “cultura dello stupro”. Gli abusi di cui si parla nel film sono frutto di una cultura maschilista o sintomo di un disagio sociale che ha origini altre rispetto al patriarcato violento?

Quella degli abusi è una questione molto complessa che, a mio parere, deve essere inserita nel contesto storico-culturale locale. La storia e le abitudini antiche di questa terra – e con “antico” intendo di cinquanta, quarant’anni fa – sono completamente diverse rispetto a quelle occidentali. Qui non esiste il patriarcato, la società è matriarcale e non esistono parole per esprimere il concetto di abuso e stupro. In passato, quando i nuclei familiari abitavano in totale isolamento, nel momento in cui le madri di famiglia diventavano sterili, le figlie maggiori rimanevano incinta dal loro stesso padre. La sessualità è sempre stata vissuta come un fatto non privato, esattamente come la nudità, una “promiscuità” che ora è problematica. Negli ultimi decenni la società è completamente cambiata, ma i vecchi quando bevono ricadono in atteggiamenti antichi. Che l’abuso e lo stupro siano da condannare è certo, ma credo che il grande problema non sia la violenza maschilista, ma il modo accelerato con cui è stata imposta la modernità. Fino a cinquant’anni fa in certi fiordi sembrava di essere all’età della pietra, mentre oggi si assiste anche qui all’era di internet.

Lo snaturamento della cultura Inuit e delle abitudini di vita ha avuto come conseguenza tassi di suicidio e di alcolismo molto elevati. Si stima che le percentuali di suicidi in Groenlandia siano tra le più alte del mondo e che proprio Tasiilaq detenga il primato. Il disagio maggiore è vissuto dalla generazione di passaggio nata nomade o quasi e trovatasi a vivere con i sussidi statali o dai giovani immersi in un contesto dove la modernità si è imposta con un modello che cozza con quella che era la cultura Inuit e lo stile di vita groenlandese?

Credo che siano i giovani quelli che provano maggiore disagio: l’uomo bianco, in questo caso nei panni dell’impostore, ha tolto loro la cultura, le tradizioni. I giovani vivono una situazione di limbo: si sentono estranei rispetto alla cultura passata ma non ne hanno trovata una nuova. Mi capita di sentire ragazzi che non mangiano la carne di foca perché “puzza come mio papà”.

Temi il turismo di massa? Credi che l’eco che la “tua” Casa Rossa ha avuto in quest’ultimo periodo possa portare a un incremento di arrivi (quando sarà possibile, ovviamente…) tanto da dover adattare Tasiilaq alle esigenze degli europei?

No, assolutamente! Non credo che qui arriverà mai il turismo di massa. Complice il Covid, abbiamo avuto solo venticinque italiani ospiti in un intero anno.

Com’è vivere una notte lunga sei mesi? Hai avuto difficoltà ad abituarti al buio invernale?

Tasiilaq è a sud, quindi in inverno abbiamo al massimo ventuno ore di buio. Certo, un po’ faticoso può essere per qualcuno, ma si dorme di più, si rallentano i ritmi. Poi d’estate c’è il sole ventiquattro ore su ventiquattro, è bellissimo.

Mentre guardavo alcune scene del documentario, mi domandavo come occupare il tempo vivendo là. Forse a causa dell’abitudine al contesto urbano, fatico a immaginare con quali stimoli riempire le giornate così da non sentirsi soli.

Devi sapere che una grande differenza con l’occidente è che qui la solitudine è qualcosa di bello. Io non soffro mai la solitudine: quando guardo fuori dalla finestra del mio ufficio vedo dodici ghiacciai, vette innevate, l’orso bianco. È un modo diverso di vivere: qui si vive il momento. Ti è mai capitato, per esempio, di comprare un libro e pensare che lo leggerai quando avrai tempo? Bene, qui non succede perché si vive nel presente non nel futuro.

Sono rimasta colpita dalle scene di psicodramma condotte dalle ragazze e dai ragazzi: raccontano le difficoltà della vita, la sofferenza e la sensazione di non trovare la propria strada. Mentre la telecamera inquadrava le giovani davanti al computer o al cellulare, mi sono domandata se per loro l’occidente fosse la “terra promessa”, se fosse qualcosa di semplicemente lontano, esotico o se rappresentasse qualcosa da cui prendere le distanze.

Tanti giovani pensano al mondo grande come qualcosa di fantastico, ma si fermano all’immagine. Attraverso i social vedono le città europee e americane, ma a loro è spesso sufficiente la sensazione trasmessa dalle fotografie o dai video. Non sono interessati a toccare con mano quel mondo, perché è così distante da loro da pensarlo come una fantasia. Molti groenlandesi che si sono trasferiti in Danimarca soffrono nostalgia di casa, stanno male a vivere in un contesto così radicalmente diverso dalle loro radici.

Secondo te, la Groenlandia è per pochi? Non mi riferisco alla possibilità di visitarla, ma di viverci o almeno di trascorrerci dei mesi. Serve pazienza? Coraggio?

Serve curiosità: curiosità verso un paesaggio diverso rispetto a quello urbano, ma anche curiosità verso abitudini che per gli occidentali sono completamente estranee. Qui quando incontri un’amica o un amico che non vedi da tempo, lo annusi. Non ci si guarda negli occhi, non ci si dà un bacio, ci si annusa l’anima. Chi viene per fare business non può essere felice e lo dico non solo perché qui non farà mai soldi. Chi viene per fare business viene visto dai locali come l’uomo bianco ospite e non si sentirà mai a casa.

Ti è mai capitato di avere paura da quando vivi a Tasiilaq? Mi riferisco sia a una paura esistenziale sia a un timore più contingente come può essere quello di non riuscire a raggiungere un ospedale nel caso di necessità.

Più che paura direi consapevolezza della difficoltà. Se si sta male, qui rischi davvero di morire perché non ci sono strutture ospedaliere e si è obbligati a raggiungere la Danimarca per trovare un ospedale adatto a intervenire in una situazione grave. Io mi dico “Io sono qui e devo accettare ciò che arriva”. Qui nessuna carta di credito riesce a guarirti, ma questo è solo un limite apparente. Gli Inuit hanno una concezione della morte molto differente rispetto a quella che hanno gli occidentali: qui si rivendica il diritto di morire tanto che anche il suicidio è qualcosa di accettato. La vita è vissuta con la cognizione della sua fine.
Rispetto al Covid, gli Inuit dicono che è la “malattia dell’uomo bianco”, cioè la malattia di una società con i paraocchi, che continua a fare gli stessi errori e che in nome del progresso non ha intenzione di cambiare rotta sebbene le conseguenze siano sotto gli occhi di tutti.

Chi sono per te gli Inuit?

Un popolo di una gentilezza disarmante. La prima volta che sono arrivato tra loro ho pensato che fossero gentilmente strani. Il loro essere e il loro modo di vivere hanno suscitato in me qualcosa di più che una curiosità: mi hanno fatto sentire accolto, mi hanno fatto scattare qualcosa nella testa e nel cuore tanto da voler rimanere con loro. Mi hanno detto: “Tu sei un uomo bianco, ma sei uno dei nostri”.

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Sebastian Felderer Sun, 05/30/2021 - 10:00

Cara Francesca, da oltre 40 anni sto seguendo la storia postale della Gronlandia e cercavo sempre il contatto con Robert Peroni. Ora ho creato una mostra con ben 35 quadri espositivi, che é sicuramente il record mondiale. Avrei grande interesse a contattarti. La mia mail: [email protected]

Sun, 05/30/2021 - 10:00 Permalink