Se un patto ti stronca la carriera
A chi appartengono le competenze e le conoscenze acquisite sul lavoro? A quanto pare, alle aziende per cui si è impiegati. La crescente diffusione degli accordi di non concorrenza lascia ai lavoratori poche opzioni nella ricerca di una nuova occupazione, scoraggia coloro che non sono coscienti dei propri diritti e frena la concorrenza nel mercato del lavoro. Ne abbiamo parlato con Maria-Elena Iarossi, ricercatrice presso l’IPL | Istituto Promozione Lavoratori.
salto.bz: Cosa si intende per monopsonio e clausole di non concorrenza nel mercato del lavoro?
Maria-Elena Iarossi: Il monopsonio rappresenta l’antitesi del monopolio che è la concentrazione dell’offerta nelle mani di un unico venditore di beni e servizi. Il monopsonio invece si genera quando la domanda è caratterizzata da un singolo soggetto economico e nel mercato del lavoro si verifica quando c’è un unico datore di lavoro sul lato della domanda e i lavoratori su quello dell’offerta. Il problema, analizzato in modo più approfondito negli Stati Uniti rispetto all’Europa, è che con l’aumento delle concentrazioni delle assunzioni e la progressiva nascita di grandi multinazionali le condizioni di lavoro peggiorano. Il motivo di ciò è da ricondurre all’utilizzo delle cosiddette clausole di non concorrenza, ovvero quelle clausole che vengono imposte al lavoratore al momento della stipula del contratto e che possono limitare la sua attività professionale successiva alla fine del rapporto di lavoro.
Il problema, analizzato in modo più approfondito negli Stati Uniti rispetto all’Europa, è che con l’aumento delle concentrazioni delle assunzioni e la progressiva nascita di grandi multinazionali le condizioni di lavoro peggiorano.
Quali sono i fattori che frenano la concorrenza nel mercato del lavoro? Quali effetti negativi si possono riscontrare?
Spesso queste clausole possono essere utilizzate per limitare la mobilità dei lavoratori, limitando quindi il loro potere contrattuale. Spesso vengono imposte a lavoratori con mansioni che non prevedono l’acquisizione di conoscenze riservate o a lavoratori che sono impiegati in occupazioni manuali o che hanno un basso livello di istruzione e di retribuzione.
Prima che intervenisse il legislatore, negli Stati Uniti perfino le catene di fast food - dove l’accesso a segreti commerciali è molto improbabile - richiedevano che il lavoratore dimissionario non si facesse assumere da una ditta che offriva il medesimo servizio e nell’arco di pochi chilometri. Il lavoratore che aveva fatto esperienza in quel settore si trovava quindi impossibilitato a riciclarsi in un’azienda simile anche solo per contrattare un salario migliore. È evidente infatti che venendo meno la mobilità viene anche meno la capacità di contrattare sia uno stipendio più alto sia condizioni di lavoro migliori.
Spesso vengono imposte a lavoratori con mansioni che non prevedono l’acquisizione di conoscenze riservate o a lavoratori che sono impiegati in occupazioni manuali o che hanno un basso livello di istruzione e di retribuzione.
Che tipo di clausole vengono utilizzate per impedire la mobilità del lavoro?
Non si può essere impiegati, appunto, in un’azienda che produca gli stessi beni o servizi. Un caso eclatante di un utilizzo scorretto degli accordi di non concorrenza riguarda Amazon: la multinazionale vende una tipologia di beni talmente vasta che ai suoi dipendenti non era consentito di lavorare praticamente da nessun’altra parte. Di fatto era un modo per l’impresa statunitense di evitare che i lavoratori si licenziassero con troppa frequenza. Dopo che la notizia uscì sui giornali, mobilitando l’opinione pubblica, Amazon fece marcia indietro togliendo la clausola, che peraltro riguardava profili bassi.
Altra condizione imposta è che il lavoratore dipendente non possa lavorare per la concorrenza nello stesso ambito geografico. Quindi per esempio se vuoi cambiare lavoro rimanendo nel tuo settore devi allontanarti di 100 km.
È un po’ come dire: se ti licenzi cambia settore. Il lavoratore finisce così per non avere alternative.
Quando la clausola di non concorrenza è giustificata?
Ad esempio di fronte alla necessità di proteggere segreti industriali, nel caso di posizioni dirigenziali dove i dipendenti hanno avuto accesso a particolari informazioni o conoscono determinate tecnologie che sono patrimonio dell’azienda. Il punto è che queste clausole si sono diffuse anche nei livelli aziendali più bassi e ciò causa non solo un freno alla mobilità ma anche condizioni svantaggiose per il lavoratore che, non avendo eventualmente nemmeno gli strumenti conoscitivi per capire il danno che gli viene arrecato, rinuncia a spostarsi.
E alle nostre latitudini qual è lo stato dell’arte?
In Europa di queste storture del sistema si parla poco ma il problema esiste. Di recente è stato presentato uno studio, “The Role of Non-Compete in Monopsony: The Case of Italy” di Tito Boeri (fRDB e Università Bocconi), Andrea Garnero (OCSE) e Lorenzo Giovanni Luisetto (Università di Trento), che riporta nuove evidenze sulla presenza di clausole di non concorrenza nel mercato del lavoro italiano.
L’indagine dimostra inoltre che gli accordi di non concorrenza hanno un effetto anche in termini di (in)sicurezza del posto di lavoro poiché il lavoratore si trova in una posizione così vincolata rispetto all’azienda che è costretto ad accettare condizioni di lavoro precarie e contratti poco sicuri. Un’instabilità che interessa anche i lavoratori già in organico a tempo indeterminato nel momento in cui, con i sindacati, si vanno a trattare contratti successivi.
L’indagine dimostra inoltre che gli accordi di non concorrenza hanno un effetto anche in termini di (in)sicurezza del posto di lavoro poiché il lavoratore si trova in una posizione così vincolata rispetto all’azienda che è costretto ad accettare condizioni di lavoro precarie e contratti poco sicuri.
Ma sono legittime queste clausole? E come reagiscono i lavoratori?
C’è una norma nel Codice civile che impedisce al lavoratore di fare concorrenza sleale al proprio datore di lavoro. L’articolo 2125 del c.c. non fornisce però un quadro dettagliato e anche in Italia vengono imposte clausole spesso non applicabili ma che il lavoratore pensa di dover rispettare. Molte volte le clausole descritte nel contratto sono generiche e di fatto sarebbero impugnabili ma la maggioranza dei lavoratori non è molto motivata a documentarsi e normalmente firma le condizioni - anche restrittive - che vengono imposte, senza farsi troppe domande. L’obiettivo è quello di riuscire ad assicurarsi il posto di lavoro per cui si sorvola su delle clausole che in parte sono illegittime, usate come strumento di pressione, e che comunque finiscono per danneggiare il lavoratore, il quale è costretto a restare in quell’azienda a condizioni sfavorevoli, quando un concorrente potrebbe magari offrire di meglio.
Ovviamente con questo non si vuole affermare che le clausole non debbano esistere, perché, come detto, per determinate posizioni possono essere giustificate. Guardando ancora agli Stati Uniti, Washington ha approvato una legge che limita fortemente l’uso del patto di non concorrenza da parte dei datori di lavoro vietando loro di richiedere clausole di non concorrenza per i dipendenti che guadagnano meno di 100mila dollari all’anno. Viceversa le clausole valgono solo dai 100mila dollari di reddito annuo in su, cioè nel caso in cui il lavoratore ha una posizione potenzialmente di rilievo e può avere accesso a determinati segreti industriali. In sostanza se l’azienda vorrà trattenere un lavoratore a lungo sarà costretta ad aumentare la sua retribuzione.
Quanto è diffuso in Italia l’uso delle clausole di non concorrenza?
Gli autori dello studio citato hanno valutato che nel nostro Paese circa il 16% dei dipendenti del settore privato in Italia è vincolato da una clausola di non concorrenza, il che corrisponderebbe a circa 2 milioni di lavoratori.
Che soluzioni si potrebbero mettere in campo per limitare la rigidità del mercato del lavoro?
Occorre limitare sul lato dell’offerta le condizioni di monopolio e sul lato della domanda quelle di monopsonio. Dal legislatore, poi, ci si aspetterebbe un maggiore controllo nella stesura dei contratti. Non secondaria è inoltre l’introduzione del salario minimo che in tanti Paesi europei già esiste. Ci vuole inoltre una maggiore trasparenza delle condizioni contrattuali, in una frase: è necessario essere di più al fianco del lavoratore.