E se Pinochet fosse ancora vivo?
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Pablo Larraìn è tornato con un’altra prova di coraggio (per noi). El Conde, premiato a Venezia per la Miglior Sceneggiatura, è infatti il classico film che richiede una certa professione di fede. Andiamo con lo spiegone.
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Cos’è
Tutti i biopic (da Neruda a Jackie, a Spencer) di Larraìn sono non-convenzionali ma alcuni sono più non-convenzionali di altri. È il caso di El Conde - reperibile su Netflix -, incentrato sul dittatore cileno Augusto Pinochet (Jaime Vadell) raffigurato come un laido vampiro di 250 anni, nato a Parigi nel Settecento con il nome di Claude Pinoche. Testimone della Rivoluzione francese e dell’esecuzione della regina Maria Antonietta finge la sua morte e fugge all’estero, partecipando alla repressione dei moti rivoluzionari nei secoli successivi.
Nel 1935 finisce in Cile e si unisce all’esercito con il nome di Augusto Pinochet Ugarte. Diventato generale, nel 1973 rovescia il governo socialista di Salvador Allende guidando un colpo di Stato e si autoproclama presidente del Paese instaurando un regime militare. Quando, dopo aver lasciato il suo incarico, le autorità iniziano a indagare sulle sue ricchezze illecite e sulle violazioni dei diritti umani, il vampiro Pinochet finge nuovamente la sua morte e si ritira in una fattoria isolata in Patagonia con la moglie Lucía Hiriat (Gloria Münchmeyer) e Fyodor (Alfredo Castro), servile tirapiedi e profondo ammiratore del generale.
Qui, Pinochet, ormai stanco, decide di porre fine alla sua vita una volta per tutte. Intanto la Chiesa cattolica invia al ranch una giovane suora, Carmencita (Paula Luchsinger Escobar), ufficialmente per aiutare la famiglia a fare il bilancio dei propri beni con la massima riservatezza (arriva infatti nella tenuta-bunker travestita da contabile) ma di fatto con la missione di conficcare un paletto nel cuore dell’ex dittatore.
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(c) Netflix
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Com’è
La metafora centrale di El Conde è piuttosto semplice, quella di un tiranno che dissangua il suo popolo, prosciuga il suo Paese e agisce solo per autoconservazione. E queste sono solo le premesse della dark comedy dai toni horror di Larraìn, il film diventa infatti una lunga riunione di famiglia con i cinque figli (un branco di persone avide e svogliate che si reca nella casa segreta di papà per reclamare la propria eredità) e la perversa moglie, una serie di conversazioni sul denaro e lo sfruttamento del Sud America, nonché una riflessione sulla natura parassitaria del fascismo, sul suo ringiovanimento e sulla sua continua trasformazione per avvelenare nuove menti.
El Conde non è solo un racconto su un vampiro immaginario, ma è un film di allusioni allegoriche e storiche portate all’estremità con un’inclinazione spinta per il grottesco e violenza grafica che parla degli orrori della dittatura, della corruzione dell’autorità religiosa e dell’insaziabile bramosia delle élite politiche in un mondo - il nostro - ossessionato dal guadagno personale e dall’individualismo.
Sul piano estetico il look del film in bianco e nero del direttore della fotografia Edward Lachman è una tavolozza di neri profondi e contrasti forti; i primi piani della suora Carmencita in estasi religiosa ricordano il modo in cui Dreyer aveva ripreso Renée Jeanne Falconetti ne La passione di Giovanna d’Arco e la scena del volo/danza è una di quelle che restano incastonate in testa.
Raffinatezza stilistica a parte il film non è perfetto, non si sviluppa davvero oltre l’idea iniziale e nel mezzo si perde un po’ nel suo J’accuse. Il regista cileno non punge come un tempo - anche in un’altra sua pellicola, El club del 2015, la Chiesa viene chiamata in causa per la sua collaborazione con i colpevoli (i preti cattolici pedofili la cui trasgressione rimane impunita proprio come quella di Pinochet in El Conde) ma allora l’affondo fu più penetrante.
Alert: fate caso alla voce fuori campo in lingua inglese che guida il racconto, perché quando il motivo di questa scelta sarà svelato il rumore che sentirete subito dopo è quello della mandibola vostra che finisce dritta sul pavimento.