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La neolingua dell’economia

Un’interessante analisi del linguaggio usato da economisti, politici e intellettuali per mascherare la realtà nel volume di Jean-Paul Fitoussi.
Jean-Paul Fitoussi4
Foto: La neolingua

“Ci siamo dimenticati che è possibile attuare politiche che portano a una ripartizione più equa delle ricchezze in ogni paese.” Lo afferma Jean-Paul Fitoussi nel suo nuovo libro dal titolo promettente La neolingua dell’economia, pubblicato con Einaudi. 

Qual è questa “neolingua” con cui si vuole dire a un malato che è in buona salute, come recita il sottotitolo? Fitoussi apre il libro dichiarando il suo disagio attuale, non solo come intellettuale esperto in economia, ma come semplice cittadino: “ascolto la gente parlare e i discorsi mi sembrano sempre più vuoti…”. E non perché siano discorsi elitari, al contrario, perché appaiono sconnessi dalla realtà. 

Com’è possibile? Fitoussi ce lo spiega nel libro, di fatto un libro-intervista scritto assieme a Francesca Pierantozzi, giornalista economica che lo ha intervistato più volte a proposito dei temi di cui si discute nell’opera. Quel che può sembrare un “problema di élite” (si esprime proprio così Fitoussi, lui stesso appartente alla cosiddetta élite economica) è piuttosto un “problema di lingua”, e si affretta a spiegare la differenza tra il termine “élite” in senso positivo e negativo. L’élite “negativa” è rappresentata da una classe dirigente (politica, economica e/o intellettuale) sempre più arrogante per proprio interesse nei confronti del popolo, che dovrebbe servire. Qui arriviamo al primo punto da chiarire: il ruolo del popolo. I cosiddetti populisti – sempre a detta di Fitoussi – dichiarano responsabili le élite della situazione in cui versano i vari Paesi, e a loro volta le élite considerano populisti tutti coloro che la pensano in modo diverso. Chiarisce subito lo studioso francese, però, che il termine “populista” non lo convince perché esprime un disprezzo per il popolo quando – a suo avviso – sarebbe più appropriato usare “demagogo” perché “il populismo non caratterizza il popolo, ma chi vuole parlare al posto del popolo”. Poi continua a elencare altri termini ormai entrati nell’uso consueto, che dovrebbero convincerci che “altri” promettono “l’avvento di una società più armoniosa e meno conflittuale”, mentre altri ancora puntano tutto sulla globalizzazione o parlano di un effetto benefico dell’arricchimento dei più ricchi dato che ciò promuoverebbe un cosiddetto “gocciolamento della ricchezza dall’alto verso il basso…” Tutte panzane, sostiene Fitoussi, o meglio: sono gli straordinari effetti di una lingua “demagoga e bugiarda” che ormai parliamo tutti, “senza più ascoltare gli altri e senza più il minimo contatto con la realtà che vogliamo spiegare”. 

 

A volte però quella realtà emerge e Fitoussi indica come esempio la disoccupazione crescente, che – secondo la neolingua – cresce per una volontà degli individui (sic!) perché generalmente si afferma che “se esiste chi non lavora, è perché non vuole lavorare!”, quindi ogni disoccupazione di massa sarebbe il sintomo di un “generale attacco di pigrizia”.

È vero che il linguaggio ha il potere di creare o distorcere la realtà, e la neolingua si crogiola in entrambi gli ambiti. Anziché controllare il linguaggio – come abbiamo pensato finora di fare  – è il linguaggio che controlla noi. Ormai è l’homo oeconomicus a regnare sull’homo sapiens secondo un procedimento molto semplice: “inventiamo un linguaggio basato su una teoria immaginaria (che può essere anche una vera teoria, ma non capita spesso) e ce ne serviamo per piegare la realtà ai nostri bisogni, per limitare la nostra comprensione al frammento più improbabile del reale”. Così si spiega al consumatore che la concorrenza è efficace e vantaggiosa per lui ma si evita accuratamente di definirne le condizioni… quando il concetto di concorrenza in realtà significa rendita, perché la concorrenza è presentabile, la rendita no. Una questione di lingua, sottolinea ancora Jean-Paul Fitoussi, nel senso che “la concorrenza addobbata di tutti i suoi vantaggi nutre la competitività, che altro non è che la concorrenza tra i paesi”, i quali in verità rispecchiano le uniche forme del mercato globale oggi: oligopoli se non monopoli, i quali “rendono” a chi li possiede o gestisce. 

Basta citare il fatto che “oggi le imprese mondiali sono in grado di mettere gli Stati in concorrenza tra loro (vedi i patteggiamenti con Google e Facebook)”, anziché il contrario: “che lo si voglia o meno, esiste un dominio di fatto da parte delle imprese globali, un loro parziale controllo degli Stati”.

La nostra neolingua è ricca di sfumature: chi vive di rendita non sono i colossi aziendali né le superpotenze, no, chi vive di rendita diventano quelli che osano chiedere protezione, chi cerca di difendersi della dura realtà della (cosiddetta) concorrenza, sono i ferrotranvieri, i lavoratori, i disoccupati…

 

E così ragionando lo studioso francese arriva a un’altra espressione che invade i discorsi politici e i media: “riforma strutturale”. Che cosa vuol dire? Per le cosiddette élite questa definizione vuol dire “tagli della protezione sociale” o “abbandono delle posizioni di rendita” da parte degli iper-privilegiati… ripetendo un ritornello ormai all’ordine del giorno: “se volete che il paese diventi più ricco, dovete accettare di diventare più poveri”. 

Fitoussi nella sua introduzione sottolinea che a ben guardare ci sono più neolingue che abbiamo conosciuto negli ultimi anni: quella del politicamente corretto, delle priorità, dei compromessi, dei buoni sentimenti… Quali sono i significati espliciti e quelli impliciti? Il discorso è complesso, si dice… Ma basta questo per escludere le persone dalla sua comprensione? “Poche democrazie oggi scampano alla tentazione dell’illiberalismo politico”, ci avverte l’autore, prima di rattristarsi di fronte a una considerazione alquanto pessimista riguardo a cosa ci abbia davvero portato il progresso: a parer suo, una lingua più povera.

Senza voler qui riportare i singoli temi di cui discutono Pierantozzi e Fitoussi lungo le 174 pagine (tra cui l’Unione europea, le varie scelte di politica economica e sociale, la precarietà, fino a il mercato siamo noi) vorrei riportare qui una riflessione dello studioso illuminante su quel che sta succedendo a livello mondiale:
“Navighiamo in acque molto pericolose quando si vuole deformare il linguaggio con un preciso obiettivo. Come già sosteneva Joseph Goebbels: ‘noi non vogliamo convincere le persone a condividere le nostre idee, ma vogliamo ridurre il vocabolario in modo tale che non possano che esprimere le nostre idee’. Esagero, ma si tratta di uno stesso processo.”
Jean-Paul Fitoussi si rende ben conto che le condizioni oggi sono assai diverse, ma l’“aver mutilato la lingua che avevamo ereditato non poteva che portarci a quello che è stato maldestramente definito il pensiero unico”. E continua nel chiedersi “come esprimere pensieri contraddittori se ci mancano le parole?”, perché sarà sempre più difficile sostenere teorie diverse non essendo più possibile narrare un mondo del passato, sparito perché non esistono più le parole che lo hanno definito, descritto, creato. Torna a citare Goebbels per sottolineare che il confronto si fa illuminante rispetto a quel che accade nel nostro presente: “il linguaggio vi costringe a esprimere unicamente quelle idee e non altre”.

L’impoverimento della lingua è osservabile ovunque, nei media, nei discorsi delle cosiddette élite, nelle lezioni dei docenti universitari e di chiunque appaia nei talk show. Il pretesto? Parlare una lingua facilmente comprensibile, a fronte di una (apparente) richiesta/pressione a usare una lingua semplice – per non dire semplicistica – che tutti possano capire, escludendo un vocabolario ormai considerato arcaico che si rifà a un mondo anacronistico. “Quante volte si sono raccomandati a me” – scrive ancora Fitoussi – “dicendomi: ‘si esprima in modo comprensibile, sia semplice, in modo da farsi capire da tutti’”. Per lui “parlare in modo semplice” rappresenta piuttosto un atteggiamento di disprezzo nei confronti del pubblico e dei lettori. Però funziona, agendo da moltiplicatore per la neolingua. Lo studioso non è assolutamente contrario al saper rendere comprensibile un argomento complesso grazie all’uso di parole semplici e chiare, ma ci rammenta che la premessa per fare questo è averlo compreso da cima in fondo. 

“La neolingua di oggi è più furba e ricca di quella di Orwell”, alludendo al suo 1984, “perché essa ha imparato la lezione: l’obiettivo principale è non offendere, non dispiacere a nessuno e dare a tutti l’impressione di imparare qualcosa”. 
Si fa anche a gara nel primeggiare tra i Paesi, ognuno è il più attrattivo, il più dinamico, e per esserlo i nuovi demagoghi “pescano nella scatola degli attrezzi del pensiero dominante”.

Chiudiamo con un bell’esempio questa breve presentazione del libro, che consigliamo di leggere per capire meglio la realtà delle politiche economiche attuali. Fitoussi cita un’espressione frequente, presa in prestito da J.F. Kennedy: “Non chiedete quello che il paese può fare per voi, ma chiedetevi quello che voi potete fare per il paese”. Detta in un periodo storico e in un contesto assolutamente diverso, in cui un paese aveva fatto molto per la sua popolazione, viene ripresa oggi per esigere tutt’altro da una popolazione già stremata e abbandonata: ecco l’intento mascherato della neolingua, che per altro proprio della ripetizione di frasi fatte ha fatto un altro suo elemento cardine. Si analizzano questioni e problemi, tante di quelle volte, da svuotare il linguaggio a disposizione, mentre le questioni e i problemi restano. 
A corto e a lungo termine. Normalmente a un’analisi dovrebbe seguire un’azione, o perlomeno una soluzione, essendo le parole legate alle cose. Sganciarle dalle cose, le priva di senso. Per questo, parlando parlando, si arriva a far accettare situazioni assurde come normali e si instaura una nuova normalità. Per dirla con Fitoussi: “quando il processo di persuasione è ultimato, si è anche rassegnati a vivere male o, peggio, a vivere senza speranza…”.

 

Non voglio però trasmettere la non speranza, piuttosto riprendere qualche passaggio espresso dall’autore nella conclusione del libro dove afferma di “aver cercato dimostrare quanto l’evoluzione (involuzione) della lingua abbia contribuito a impoverire la nostra percezione della realtà e a limitare le azioni che potevamo intraprendere”. Parla di autocensura Fitoussi, e con questo arriva a dire che ciò “rischi di favorire l’avvento di regimi autocratici”. E per quanto riguarda il ritornello diffuso dagli istituti di ricerca e di statistica che le nostre società sono più ricche, è vero certo, ma: “dire oggi che siamo molto più ricchi di prima non significa niente, perché non sappiamo di chi si parla: noi chi?”

“Il dogmatismo dottrinale è un pericolo per la democrazia quanto l’estremismo”, avverte il professore emerito presso Sciences Po a Parigi, che insegna anche presso la LUISS di Roma ed è membro del Center on Capitalism and Society della Columbia University. Chiude questo volume con un invito (del resto si è sempre dedicato a stimolare le persone a riflettere , citiamo Il teorema del lampione o come mettere fine alla sofferenza sociale, uscito nel 2013, sempre per Einaudi), da mettere subito in pratica, ognuno e ognuna secondo le proprie possibilità: “Dobbiamo fare il possibile per evitare di passare dall’uno all’altro. Non è l’Europa il nostro problema, ma il cinismo delle sue politiche.”