Culture | Ballerini

30 luglio - Fred Astaire

Con Čajkovskij posso abbandonarmi al patetico senza inibizioni, in fantasie di tulle e organza, aggraziata fata-confetto in un gigantesco carillon...
Hinweis: Dieser Artikel ist ein Beitrag der Community und spiegelt nicht notwendigerweise die Meinung der SALTO-Redaktion wider.

Il numero della fila non lo ricordo. So che ero leggermente a sinistra, in alto, ma non troppo lontana dal palco. Mi accomodo e mi guardo attorno, circondata da un ronzio di chiacchiere, da carni tremolanti che si sciolgono in abbracci e in un profluvio di sorrisi.

L’orchestra sta provando per conto suo, nel senso che mi pare che ognuno suoni la sua parte, ascoltando per ora solo se stesso, per testare la resistenza degli archetti e l’agilità delle dita e vedere fino a che punto le labbra si possono tendere per aprire il giusto spiraglio al fiato. In questo brusio, indistinto ed eccitato, mi catturano quattro musicisti in fondo al palco.Tra loro, pacche sulle spalle e parole sottolineate con le mani, che precisano, puntualizzano, domandano ed esagerano. Uno dei quattro si scosta dal gruppo, per conquistarsi lo spazio di un racconto, forse vero per metà, con una mimica da Ray Liotta in Quei bravi ragazzi; stira il bavero della giacca, si sistema il colletto della camicia e con la mano destra descrive cerchi incessanti nell’aria. Scoprirò poi che è il percussionista che suona i piatti e che, suonandoli, si trasforma: da Ray Liotta a Edward Norton nello spazio di una nota.

Il trillo di un ottavino mi sveglia dall’ipnosi, giusto in tempo perchè io veda il mio vicino-dirimpettaio di poltrona. Panama bianco, golfino bianco; sotto il cappello capelli così candidi da far sembrare il panama un crema opaco. Ha le guance larghe e ben rasate, gli occhi brillanti, una flessuosità nei movimenti che me lo fa immaginare vecchio ballerino in pensione, re della leggerezza. Dalla mia poltrona gli sbircio le scarpe: bianche e nere, da Fred Astaire.

Quando il ronzio si spegne è perché la sala è catturata dal Maestro, inutile negarlo: ci lasciamo sedurre tutti dalla fermezza del passo e da un certo sentore di autorità. Poi, d’improvviso, quando la gazza ladra ha iniziato a solleticarmi il naso come le bollicine dello spumante, mi sono resa conto che i suoni si intrufolavano dappertutto, che me li ritrovavo a tambureggiare nella pancia, esaltando il mio entusiasmo; ticchettanti, sulle mani e sui piedi. Insolenti, mi sfarfallavano intorno per farmi ridere, mandando all’aria la compostezza che avevo indossato apposta, per il velluto rosso.

Con Čajkovskij posso abbandonarmi al patetico senza inibizioni, in fantasie di tulle e organza, aggraziata fata-confetto in un gigantesco carillon e posso poi correre, con la Mazurka, lungo i corridoi del Louvre.

Il ballerino in pensione la pensa come me, perché ho l’impressione che con il Valzer dei fiori si alzi dalla sua poltroncina, si sollevi in punta di piedi e riesca, con un volo rapidissimo, a raggiungermi. Mi tende la mano, poggia le scarpe bianche e nere su un proscenio che vediamo solo noi due e mi guida in una danza che sembra non aver mai fine.

Quando rientro a casa, dirigendo i Vespri siciliani del bis, gatto n. 1 e gatto n. 2 mi sorridono soddisfatti, fieri della mia seconda vista.