I veri potenti
“Giustizia”: ecco un sostantivo da maneggiare con precauzione. Una frase come “fiducia nella giustizia” è vuota, buona solo per ingraziarsi chi agisce in nome della “giustizia” (casomai ci si trovasse ad avere a che fare con essa): procuratori, polizia giudiziaria, giudici, non esclusi avvocati, periti, cancellieri. Il buon avvocato conosce la legge, si dice nei tribunali, ma l'ottimo avvocato conosce il giudice. La “giustizia” è una questione molto terrena, gestita da persone figlie del loro tempo e del loro ambiente, con inclinazioni, convinzioni, simpatie, antipatie, ambizioni e nel peggiore dei casi interessi squisitamente privati o faziosità politiche: “... adesso bisogna attaccarlo” (Matteo Salvini) scrive a un suo collega Luca Palamara, ex presidente dell'Associazione nazionale magistrati e a quel tempo (2018) membro togato del Consiglio superiore della magistratura.
In quanto amministrata da persone in carne e ossa, la “giustizia” può sbagliare. Questa eventualità è prevista dallo stesso ordinamento. Contro una sentenza si può infatti ricorrere, affidando il caso a giudici nuovi e più distaccati. Quando in appello o in cassazione le condanne si tramutano in assoluzioni (il contrario è molto più raro), ciò avviene perché le prove a carico non reggono a una valutazione meno esposta alla pressione ambientale che si crea intorno ai processi, pressione tanto più forte, quanto più forte è l'interesse pubblico della causa. Ci sarebbe poi un altro principio: il giudice deve essere “terzo e imparziale” (art. 111 della Costituzione).
In quanto amministrata da persone in carne e ossa, la “giustizia” può sbagliare
Un elementare senso di equità (oltre al comune buon senso) suggerisce che le parti del processo, l'accusa e la difesa, siano collocate su un piano di parità e che a decidere sulle loro istanze, durante le indagini come a dibattimento, sia un giudice “terzo e imparziale”, equidistante dal pubblico ministero e dall'avvocato. Infatti è così in quasi tutti i paesi cosiddetti civili, dove la carriera del giudice è separata da quella del pubblico ministero (e i loro uffici pure). Nel Regno Unito, dove all'onore e all'onere di giudicare il prossimo si accede solo dopo una lunga e onorata carriera, si ricusa un giudice se lo si è visto entrare in ascensore con un procuratore o con un avvocato. In Italia si passa dal ruolo di giudice a quello di procuratore, e viceversa, mentre il termine “giudici” è comunemente usato per indicare sia gli uni che gli altri. Bell'equivoco.
Al cospetto della “giustizia” si disputa dunque un match a due, ma uno dei contendenti è parente dell'arbitro. C'è di più: l'arbitro (il giudice) è spesso in soggezione verso il contendente imparentato (il procuratore). È raro ad esempio che i giudici delle indagini preliminari rifiutino al pubblico ministero la richiesta di prolungamento delle indagini, che si protraggono ben più in là dei sei mesi previsti dal codice. Al tribunale di Roma il procuratore ha addirittura la possibilità di chiedere che il fascicolo venga assegnato a una certa sezione giudicante del tribunale: prassi in palese conflitto col principio del “giudice naturale precostituito per legge” (art. 25 della Costituzione). L'appiattimento del giudice sul procuratore si dimostra anche nel fatto che gli incarichi di maggior prestigio e più ambiti sono quelli nelle procure della repubblica.
L'informazione, il più delle volte, fiancheggia l'accusa, e l'accusa non disdegna servirsi del concorso esterno dell'informazione. Il vizio è antico e anche in questo caso le intercettazioni del caso Palamara confermano una prassi nota. In parte, ma solo in parte, ha a che fare col principio (tutto da provare) secondo cui “only bad news are good news”: quindi il giornalista è portato a darci darci dentro nel denunciare l'associazione a delinquere, il concorso esterno, la corruzione, la truffa, l'abuso..., e a sostenere gli inquirenti che “tengono nel mirino”, prendono provvedimenti “imminenti e clamorosi”, preparano mandati di cattura “a raffica” e fanno “scattare” le manette: parole assai rivelatrici. L'Italia ha uno stile e linguaggio tutti suoi in fatto di cronaca giudiziaria. I cronisti frequentano le procure, quasi per nulla gli studi degli avvocati, ed è dai procuratori che ricevono le notizie, opportunamente selezionate. È difficile immaginare che questa frequentazione diventi complicità?
I magistrati, storicamente, non sono simpatici alle persone comuni: quando si ha a che fare con loro, di solito, è per questioni poco piacevoli. La letteratura, il teatro e il cinema spesso li descrivono come arroganti, pieni di sé e della propria dottrina, affatto sereni e equilibrati (anche gli avvocati, per la verità). Manzoni aveva una scarsa considerazione della “giustizia”; Kafka racconta il meccanismo angosciante del processo; De Andrè canta di un giudice che affida al boia gli imputati “con un piacere tutto mio”...
I cronisti frequentano le procure, quasi per nulla gli studi degli avvocati, ed è dai procuratori che ricevono le notizie, opportunamente selezionate. È difficile immaginare che questa frequentazione diventi complicità?
Eppure in Italia, da tangentopoli in poi, i magistrati hanno goduto di un alto grado di considerazione e fiducia nell'opinione pubblica. Ciò li ha portati ad acquistare ed esercitare potere ben al di là dei compiti, doveri e limiti che la legge assegna loro. La cosa è sotto gli occhi di tutti e non riguarda del resto solo la magistratura penale e civile, ma anche quella contabile e amministrativa. Dalle grandi scelte industriali agli appalti, ai concorsi, ai piani regolatori, alle licenze edilizie, ai mandati di pagamento dell'amministrazione, alle note spese di un sindaco, alla bocciatura di un alunno...: non c'è questione che non possa finire in un aula di tribunale, della Corte dei conti o del Tar.
È un fatto più volte tematizzato che in Italia le magistrature svolgono un ruolo di supplenza della politica, ma quest'ultima deve rimproverare solo se stessa se questo avviene. Non perché non abbia la forza di fermare le inchieste, che vanno condotte nel rispetto della procedura e devono arrivare a una conclusione chiara, di condanna o assoluzione. La politica, o meglio coloro che la praticano, devono rimproverare se stessi perché da qualche decennio a questa parte ormai non riescono più a svolgere quello che è il loro compito: dare prospettive alla società. Viviamo una situazione difficile e inedita, d'accordo: un modello di sviluppo arrivato ai suoi limiti, globalizzazione, speculazioni finanziarie, migrazioni, emergenze ambientali, conflitti religiosi ed etnici... La situazione è difficile, ma se uno si dà alla politica, evidentemente ritiene di avere proposte valide ed efficaci. Invece stiamo assistendo a un fallimento complessivo, e ciò ci rende sfiduciati, arrabbiati, rancorosi e diciamo pure giustizialisti. Tendenzialmente, chi è accusato è colpevole e va punito. Il guaio è che così abbiamo creato altri potenti.