Chronicle | Il volume

"Così arrestammo Marco Bergamo"

I ricordi di Guido Rispoli nel nuovo libro di Paolo Cagnan sul serial killer bolzanino. L'autore individua anche un possibile legame con l'omicidio di Simonetta Cesaroni.
arresto di Marco Bergamo
Foto: Libro Paolo Cagnan

Esce oggi (31 agosto) in libreria “Anatomia di un serial killer” (Athesia), libro del giornalista bolzanino Paolo Cagnan che riprende e amplia notevolmente la storia raccontata dallo stesso autore oltre trent’anni fa, nel 1994, con un instant book sul serial killer Marco Bergamo che ebbe grande successo. Il pluriomicida è morto di malattia nel 2017, a soli 51 anni, lasciando dietro di sé un unico, grande interrogativo: ha ucciso ancora, magari altrove?  Nel libro il cronista ricostruisce una ingarbugliata matassa che porta direttamente a Roma, al cold case italiano per eccellenza, l’omicidio di via Poma, e cioè l’uccisione di Simonetta Cesaroni.

Paolo Cagnan  foto Nicola Bianchi
Paolo Cagnan Secondo l'autore c'è un possibile legame con l'omicidio irrisolto di via Poma Foto Nicola Bianchi

 

Per concessione dell’autore, riproduciamo qui il capitolo in cui Cagnan intervista il procuratore Guido Rispoli, che al suo primo anno da magistrato si trovò ad indagare sul caso.

 

Bentrovato dottor Rispoli.

Buongiorno a lei.

Partiamo?

Certamente, spero di ricordarmi tutto. Sono sincero… non ho studiato.

Mi dica a bruciapelo qual è la prima immagine che vede, se ripensa al caso Bergamo.

Quella notte d’agosto del 1992. Avevo appena compiuto trentuno anni, magistrato da appena un anno e mezzo. Mi rivedo scendere dalla macchina della polizia che mi aveva portato sulla stradina del Colle, dove era stato ritrovato il cadavere di Marika Zorzi. Ricordo bene la preoccupazione di essere all’altezza, perché avevo capito subito che sarebbe stato un caso importante.

Ritrovate a terra un deflettore, ricostruite che apparteneva a una Seat Ibiza. Ci sono anche dei testimoni, questa volta. Ricordano alcune cifre della targa. Voi fate la cosa giusta: blindate la città.

Sì, noi abbiamo cercato di valorizzare il dato del deflettore e quello della targa per trovare quella macchina, sapendo però che sui numeri, i testimoni potrebbero anche essersi in parte sbagliati. E quindi abbiamo immaginato anche le combinazioni similari. E poi abbiamo diviso la città in quadranti, affidati a polizia e carabinieri. Eravamo certi che tra vittima e assassino ci fosse stata una colluttazione. Per questo, in quel momento abbiamo pensato che l’omicida potesse trovarsi ancora a Bolzano. Intento a risistemare la macchina, o a ripulire sé stesso. Quindi, abbiamo cinturato la città e pensato: se prova a uscire dal perimetro, lo becchiamo.

Buona idea, ma ha funzionato solo in parte. Perché l’assassino quella notte buca il cordone due volte: si reca nella pineta di Monticolo dove smonta il sedile passeggero, nasconde gli effetti personali della vittima nel bagagliaio e poi rientra in città, senza essere fermato né all’andata né al ritorno. Poi però risale in macchina per recarsi a Trento, dove deve fare la radioterapia, ed è in quel frangente che lo intercettate e bloccate.

È andata esattamente così. Lo abbiamo fermato intorno alle sei del mattino. Considerato cosa aveva in macchina, probabilmente una volta giunto a Trento si sarebbe disfatto di tanti oggetti e indumenti riconducibili all’omicidio.

Cosa ha pensato quando lo ha visto la prima volta?

L’ho incontrato in questura, perché volevo interrogarlo subito. Mi sono trovato di fronte un giovane che sembrava un impiegato, più che un assassino. Nella mia mente di giovane magistrato, credevo che avrei visto qualcosa di diverso, mentre davanti a me avevo una persona che avrebbe potuto essere l’impiegato delle Poste da cui vai a fare una raccomandata.

E il primo interrogatorio?

Abbastanza semplice, ha subito confessato. Ho capito di avere di fronte una persona con una personalità particolare.

Il clima in questura?

Beh, entrando vidi che un ispettore di polizia gli diede un calcio sul sedere. Ispettore che conoscevo e stimavo. Mi colpì negativamente, non me l’aspettavo. Lui incassò la pedata senza reagire e mi restò impresso, perché un’altra persona avrebbe quantomeno protestato. Bergamo, invece, fece uno sguardo a capo chino e io vi lessi questo: “Di tutto quello che mi succederà da qui in avanti, è il meno”.

Rispoli, Guido
Guido Rispoli Il magistrato bolzanino indagò al pirmo anno di lavoro sul serial killer Marco Bergamo Foto NBC

 

Tutti eravate convinti che fosse lui il serial killer, oppure qualcuno ha cercato di frenare e di invitare gli altri alla calma?

La sensazione era chiara: l’abbiamo preso. Certo, dimostrare la sua responsabilità era un altro paio di maniche, ma credevamo perlomeno di averlo tolto dalla circolazione. “Non farà altri danni”, ecco: questo abbiamo pensato.

Con quegli elementi sulla macchina, l’avreste rintracciato anche se non vi fosse capitato di imbattervi in lui?

Io penso di sì. Prima o poi l’avremmo trovato. Non sarebbe stato in grado di sistemare la macchina in breve tempo.

… e poi avreste sentito tutti i carrozzieri.

Sì, certo. Avremmo forse faticato a ricondurre a lui l’uso dell’auto, quella notte. Sa, in questi casi può succedere di tutto: lui può dire che la macchina gliel’avevano rubata, che aveva lasciato su le chiavi... Però io direi che l’avremmo incastrato lo stesso.

Ecco: Bergamo confessa il delitto Zorzi, avete davanti a voi due casi analoghi avvenuti pochi mesi prima. Il delitto Rauch si sblocca con il famoso biglietto lasciato sulla tomba della ragazza. Come è andata davvero?

Il dottor Zelger [Alexander Zelger, allora capo della Squadra mobile] venne da me in ufficio con quel bigliettino manoscritto e mi fece presente che secondo lui poteva essere importante. Avevano già fatto comparazioni con altri scritti di Bergamo e la calligrafia era praticamente identica, in particolare le “emme”. Così andai a interrogarlo sempre in relazione al caso Zorzi, ma con l’obiettivo di giocarmi il jolly del biglietto. Quando lo vide, Bergamo rimase molto colpito, stette a lungo in silenzio e poi confessò. Oltre ogni ragionevole dubbio, come si dice in questi casi. Mi feci fare anche uno schizzo della zona, ma comunque con il bigliettino e le dichiarazioni ritenevamo d’essere a posto.

Due delitti confessati. Manca il caso Troger. Ma in parallelo riaprite altri fascicoli. Come ha fatto a far sì che carabinieri e polizia non si scornassero?

La strategia, che ho poi usato in casi simili, è stata questa: ripartire i meriti in parti uguali, a prescindere. Esempio: se Bergamo dovesse confessare un omicidio del gruppo di lavoro dei carabinieri, nelle mie dichiarazioni ufficiali ci sarebbe sempre un riferimento a polizia e carabinieri insieme, a prescindere. E viceversa, ovviamente.

Perché riaprite quasi subito il caso Casagrande? Cosa poteva c’entrare un serial killer di ragazze di strada con l’assassino di una adolescente, in casa, sette anni prima?

Fu una sollecitazione venuta dalla polizia giudiziaria. Creammo squadrette investigative di tre-quattro unità che dovevano approfondire i singoli casi astrattamente riconducibili a Marco Bergamo. C’era anche chi si era occupato all’epoca del delitto Casagrande, che cercò di valorizzare gli elementi che potevano collegarlo a quel delitto.

 

 

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Simonetta Lucchi Sun, 09/10/2023 - 09:55

Marcella Casagrande frequentava la mia stessa scuola e abitava nella casa della mia migliore amica di allora. La casa era vicina a quella di Marco Bergamo e alla scuola stessa e se ben ricordo era un conoscente del padre. La madre di Marcella era anche insegnante nella stessa scuola. Il padre di Marco Bergamo si uccise e la madre perseguitata dalla stampa.Ancora adesso aspetto una riflessione seria sui motivi di queste morti e di tutte le altre violenze contro le donne fino ad oggi.

Sun, 09/10/2023 - 09:55 Permalink