Fellini, vent'anni di indifferenza
“Se ci fosse un po’ più di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire”. Questa è la frase con la quale Federico Fellini nel 1990 chiude il suo ultimo film, “La voce della luna” e dunque è l’ultima battuta, per così dire, della sua opera, almeno di quella cinematografica, cominciata fra gli anni Quaranta e Cinquanta.
L’opera filmica del regista riminese si chiude dunque con un elogio della pausa, del non-detto, con un invito alla riflessione e al distanziamento artistico e poetico (o almeno critico) dal coacervo di suoni, immagini e segni della datità quotidiana, con una denuncia dell’horror vacui che induce tutti e tutto a riempire ogni spazio, ogni diastema, qualsiasi elemento intervallare con qualcosa di proclamato, urlato, con un graffito, un fregio (o sfregio), un nuovo talk-show, un tweet, un post, l’ennesimo libro natalizio del solito giornalista televisivo che in duecento pagine di nulla di nuovo non racconta nulla, appunto.
Non è novità, per Fellini, quella di tapparsi le orecchie di fronte al frastuono del circo mediatico (e non solo mediatico) e quella di cercare una via di fuga votata al silenzio o, almeno, alla sottrazione.
Ce ne parla anche in film precedenti, come “Ginger e Fred” (1985), “Intervista” (1987), ma anche ne “La dolce vita” (1960).
Quasi per ironia della sorte, questo silenzio vagheggiato da Fellini come momento di “divertimento” (nella sua accezione etimologica di “allontanamento”) in virtù del quale riuscire ancora a pensare con la propria testa, almeno un po’, si è ritorto contro di lui e si trasformato nella ventennale indifferenza che soprattutto in Italia si è addensata intorno alla sua figura fino a questi ultimi giorni.
In occasione dei vent’anni dalla sua scomparsa, avvenuta a Roma il 31 ottobre 1993, qualcosa sembra muoversi e far riemergere in ricordo di un artista, di un cineasta comunque scomodo, tanto che, come si sa, negli ultimi anni della sua vita ha fatto fatica a lavorare e a trovare produttori e distributori davvero intenzionati a investire nelle sue opere.
Ma anche se Fellini è rimasto più o meno nell’oblio per questi ultimi vent’anni, i suoi personaggi, le sue storie, le sue ambientazioni, forse in modo particolare le sue ambientazioni, fanno parte del patrimonio culturale di tutti (o quasi).
C’è ora da sperare che dopo il film di Scola (“Che strano chiamarsi Federico”, presentato lo scorso settembre a Venezia), dopo questi giorni di celebrazioni, di mostre (di cui una anche a Bolzano, presso la Galleria Civica, in Piazza Domenicani, sino al 3 novembre 2013 dal titolo "Il sogno è l'infinita ombra del vero"), di retrospettive, non si torni poi al disinteresse che ha accompagnato gli ultimi due decenni.
E c’è inoltre da augurarsi che Federico Fellini smetta di essere erroneamente considerato un regista per intellettuali e/o aspiranti tali, per artistoidi che sognano di fare il verso a questo sognatore giocherellone “bugiardo” che andrebbe non tanto “letto” (come si diceva negli anni Settanta: “leggere un film”) ma semplicemente visto, ascoltato, fruito così, semplicemente e con un pizzico di ironico disincanto, un po’ come quello dei suoi clown, allegri, buffi, comici ma tristi, talora tristissimi, saltimbanchi e musicisti di strada e d’orchestra, con lo sguardo gioioso e malinconico al tempo stesso.