“La gogna mediatica riguarda tuttə”
salto.bz: Professore, si è tornato a parlare di parole, della loro importanza. Un tema entrato a far parte anche dell'agenda politica: la discussione sul “Ddl Zan” contro l'omotransfobia, per esempio, è sfociata nel 2021 in uno scontro terminologico. Con la sociolinguista Vera Gheno lei è co-autore del libro Trovare le parole. Abbecedario per una comunicazione consapevole (Edizioni Gruppo Abele, 2021). Perché le parole sono ancora così importanti?
Federico Faloppa: Le parole sono importanti nell'agenda politica, e in tutte le agende. Anche a livello di comunicazione, da quella individuale mediata dai social sino a quella a mezzo stampa, mi pare ci sia da un lato molta semplificazione – che produce polarizzazione e un livello del dibattito molto superficiale – e dall'altro un pressappochismo che a volte è noncuranza, mancanza di tempo per approfondire o a volte malafede. Lo si vede anche sui giornali: manipolare l'opinione pubblica facendole credere che un concetto o un dibattito significhino una cosa piuttosto di un'altra. Trovare le parole nasce da una constatazione e da un'urgenza: negli ultimi anni io e Vera Gheno ci siamo concentrati rispettivamente sul contrasto ai linguaggi d'odio e sulla comunicazione e il linguaggio inclusivo, legato in particolare alle questioni di genere (è di Gheno la proposta dello schwa, ndr).
Parliamo una lingua che discrimina?
Partendo dall'assioma che la lingua non solo dice delle cose, ma le fa, dire delle cose significa anche creare delle categorie, che si riflettono nelle rappresentazioni sociali e nei rapporti di potere. Pensiamo alle stesse categorie etniche, che uniformano un'appartenenza e la rendono omogenea, come “gli italiani” – su cui Francesco Filippi ha scritto un bel libro –, le persone eterosessuali, “gli africani”. Parole che non dicono solo qualcosa, ma creano delle categorie, attivano stereotipi, elementi di giudizio, e possono diventare azione. Sei “albanese”, quindi non ti affitto la stanza, o non ti do il lavoro. La categoria che si traduce in rapporti.
Ha parlato di categorie e citato il ruolo dei media. Nel raccontare gli scontri con la polizia durante gli europei di calcio, alcuni giornali altoatesini hanno sottolineato la presenza di determinate “categorie” piuttosto di altre. È solo l'ultimo di un'infinita serie di episodi sull'uso di parole discriminatorie da parte dei media. La consapevolezza delle redazioni non aumenta?
Si sono fatti tanti passi in avanti, anche grazie alla Carta di Roma, o le formazioni all'interno delle redazioni. Per esempio, la battaglia di dieci anni fa sull'uso improprio del termine “clandestino”, oggi in parte è stata vinta. Anche l'aggettivo di nazionalità, o etnico, legato a un fatto di cronaca si sente meno. Si parla di persone, se serve si aggiunge un elemento che specifica: prima la nazionalità o la provenienza connotavano l'azione, in negativo o in positivo. Pensiamo però come vengono descritti i cosiddetti femminicidi: usare certi termini è molto connotativo. È sintomatico il fatto che su molti mezzi di informazione mainstream, di fronte alla violenza di genere, si tenda a utilizzare ancora una lingua che giustifica l'aggressore mentre colpevolizza la vittima.
Tema caldo dello scorso anno, dicevamo, la (non) approvazione del Ddl Zan.
Caso emblematico, se parliamo di manipolazione delle parole e dei concetti, e di come vengano travisati anche i testi. Basta leggere quel testo: non si parla di “ideologia di genere”, mentre invece in un qualsiasi telegiornale della Rai la dichiarazione del politico di turno denuncia l'ingresso dell'ideologia gender nelle scuole. Qui non c'è soltanto l'uso non appropriato dei termini, ma un uso manipolatorio, si parla di cose che non esistono o non sono presenti. La Rete Nazionale per il Contrasto ai Discorsi e ai Fenomeni d'Odio, che coordino, ha fatto un lavoro filologico sul testo, per dire “attenzione alla disinformazione”. Non si parla né di “ideologia di genere”, né di “uteri in affitto”, mentre la cd. “identità di genere” non nasce con il Ddl Zan: è già trattata dalla giurisprudenza internazionale da un paio di decenni, ci sono sentenze della Corte di Strasburgo e della Corte costituzionale che la menzionano. Non è una bestemmia, è entrata a far parte dei codici.
Il ddl Zan non c'entra con una fantomatica ideologia gender. L'identità di genere non è una bestemmia, è entrata a fare parte dei codici della giurisprudenza internazionale
Perché la questione dell'identità di genere è così fondamentale?
Senza l'identità di genere si cambia tutto per non cambiare niente, creando un nuovo disequilibrio. È un punto centrale del disegno di legge: di fronte a persone che non hanno compiuto un percorso di cambiamento, come le persone trans che non hanno completato la transizione, ci si pone il problema di tutelare tutt* allo stesso modo, non solo contro l'omofobia ma anche contro la transfobia – introducendo anche il discorso d'odio per discriminazioni relative all'abilismo. Inoltre il ddl Zan non fa altro che ampliare, nell'ordinamento penale, tutele che già esistono. La Legge Mancino parla di incitamento all'odio per motivi religiosi, etnici, nazionali, razziali; il ddl estende le aggravanti ad altri casi. E concretizza l'articolo 3 della Costituzione che prevede l'uguaglianza di fronte alla legge.
Si fa ancora fatica a capire cosa significhino termini quali genere, transgender, binarismo etc., “etichette” attorno alle quali si gioca la vita di molte persone. Cosa spaventa i detrattori del Ddl?
C'è la falsa credenza che la coperta dei diritti sia corta, che se li estendiamo, li togliamo da qualche altra parte. Eppure riconoscere il non-binarismo non toglie nulla a chi ha già dei diritti. In questo senso, la manipolazione ultima – e qui siamo nel terreno della malafede – è l'eterofobia. Chi vuole smontare il Ddl Zan, sostiene che le protezioni previste non esistano per gli eterosessuali. Far entrare nel discorso un concetto, nominandolo e legittimandolo, ci fa credere che esista. Qui entra l'uso sbagliato delle parole: non si tratta soltanto di linguaggio, ma di categorie che creano realtà.
Perché era necessario un libro come l'abbecedario scritto a quattro mani con Gheno?
Perché su molte parole e concetti, anche a uso nostro, “militante”, ci sembrava il caso di fare un po' d'ordine, per evitare che pure noi semplificassimo troppo il dibattito, che a slogan rispondessimo a slogan, cadendo nella polarizzazione anche “ideologica” che si innesca. Un abbecedario, in ordine alfabetico, da A come “ascolto” fino alla Z di “zen”, ovvero l'idea dell'aikido argomentativo di cui parla Carofiglio nei suoi libri: piuttosto di aggredire l'avversario, trova dei punti deboli della sua argomentazione, rifletti su ciò che non funziona. Ad esempio sui social, l'elefante nella stanza.
Dobbiamo stare attentə a non semplificare il dibattito, a rispondere con slogan a slogan, cadendo nella polarizzazione. Perché chiunque può scatenare la gogna mediatica, se crede di stare dalla parte del giusto
In che modo ci riflettete?
Alla C troviamo “community standard”, su come i social media hanno riflettuto su degli standard di qualità, di moderazione. Poi c'è la G di “gogna”, la gogna mediatica. Siamo portati a credere che l'odio sia creato da odiatori/odiatrici tradizionali o di professione, oppure dalle cosiddette “centrali dell'odio”, dalla “Bestia” di Salvini in giù. Ma la gogna mediatica riguarda tutti noi: se non facciamo attenzione, possiamo scatenarla tutti verso chi non la pensa come noi. Perché crediamo di stare dalla parte giusta, ma immediatamente passiamo dalla parte del torto.
È possibile trovare una chiave di lettura transnazionale su questi argomenti, guardare a essi non come a una nostra esclusiva, ma inserirli in un contesto di dibattito più ampio? D'altronde, movimenti come Black Lives Matter o Non una di meno si sono articolati nei diversi paesi.
Se oggi non ragionassimo in termini cooperativi, transnazionali, non potremmo fare un discorso completo, ad esempio alle leggi sull'odio online. La Germania ne ha adottata una, molto severa, entrata in vigore nel 2018. La Francia ha tentato di introdurla, ma è stata dichiarata in parte incostituzionale. Il “discorso d'odio” è già difficile da definire, non esiste una definizione giuridica in molti paesi, allora come si fa a delegare la rimozione o il mantenimento di contenuti alle piattaforme private? È una domanda complessa, che tocca la formazione di moderatori e moderatrici, la libertà di espressione, chi la garantisce, a chi spetta l'ultima parola... per la Corte costituzionale francese non spetta alla magistratura, per esempio. Ci sono molti elementi, ma non avremmo una discussione ampia, matura, interessante se non guardassimo oltralpe. Discussione che c'è anche in Italia: Laura Boldrini ha depositato alla Camera una proposta di legge sull'odio online.
Nel libro la J sta per Jo Cox, la deputata laburista inglese uccisa nel 2016.
Cerchiamo di riflettere su un piano istituzionale. Il libro ruota sulla responsabilità individuale, pensando a chi voglia avere un supplemento di informazione e di indagine. Ma ci poniamo il problema anche su come sollecitare un intervento pubblico, o su quali siano le istituzioni che se ne occupano.
E poi la P di “dittatura del politicamente corretto”. Siamo in una dittatura?
Non siamo mai stati più liberi di esprimere le nostre idee, ma si fa credere all'opinione pubblica che i “buonisti” vogliano sovvertire l'ordine democratico. E lo dicono gli editorialisti dei grandi quotidiani, miopi di fronte alla proliferazione di discorsi discriminanti, elitisti, classisti. Il mantra di parole come “politicamente corretto” o “buonista” obbliga chi ne viene colpito a giustificarsi, togliendo tempo ed energie a un dibattito serio e approfondito. Ad esempio, il politicamente corretto è stato un movimento, dagli Stati Uniti in poi, che ha dato uno spazio discorsivo alle minoranze, ponendosi la questione dell'uso di un linguaggio non esclusivo ed escludente nella vita democratica.
Capita spesso di finire in queste trappole, di restare intrappolati dentro contronarrazioni e dibattiti unidirezionali. Come se ne esce, alla luce della sua esperienza – anche di attivista?
Ci sono vari modi. Quando mi si dava del “buonista”, lasciavo l'onere della prova all'altra persona, chiedendole “cosa vuoi dire con buonista?”, per argomentare e andare oltre lo slogan. Gli esiti possono essere due: la polarizzazione si amplia, finendo al silenzio, oppure si costruisce uno spazio di mediazione discorsiva, “ci sono delle zone grigie sulle quali possiamo ragionare”. Il libro ragiona su quelle zone grigie. Facciamo emergere il conflitto, in uno spazio negoziale nel quale le voci di moltiplicano: è necessario riprendersi degli spazi discorsivi, spazi di complessità e di dibattito serio.