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Stop sfruttamento lavoro e natura

Il binomio creazione di posti di lavoro e tutela dell'ambiente porta spesso a contraddizioni.
Avvertenza: Questo contributo rispecchia l’opinione personale del partner e non necessariamente quella della redazione di SALTO.
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Foto: Fabio Petrini

Nel nostro sistema economico la spinta verso la crescita economica accomuna le spesso aziende e i sindacati. Le aziende per massimizzare i profitti, i sindacati puntano invece ad aumentare o salvaguardare i posti di lavoro. Se cresce la produttività è, infatti, più facile avere stipendi e salari migliori. Se questo è vero il mondo del lavoro sta di fatto, suo malgrado, indirettamente lottando anche per i profitti delle aziende. In questo sistema un aumento del Pil non si collega automaticamente al rispetto dell’ambiente e alla tutela dei posti di lavoro.

Nei primi decenni del dopoguerra, la politica della crescita economica si è rivelata promettente. Il lavoro era diventato negli anni del boom economico una merce scarsa e il tenore di vita dei lavoratori aumentava costantemente. Ma da tempo le cose sono cambiate. In primo luogo è diventato sempre più evidente che ci sono limiti a livello planetario e il consumo di materie prime ed energia in costante crescita sta distruggendo l’ecosistema della terra. Con l’avanzata inarrestabile del neoliberismo, oltre alla scarsa considerazione per l’ambiente, la ridistribuzione della ricchezza si è spostata dal basso verso l'alto.

La quota di salari e stipendi sul totale dei redditi economici si è ridotta. Gli alti tassi di disoccupazione, ma anche il lavoro autonomo fasullo, stanno deprimendo il reddito dei lavoratori a favore dei profitti.

Qualcuno afferma che da molto tempo i profitti e i patrimoni crescono più dell'economia. Se questo è vero deriva probabilmente dal calo della quota salariale, o quest’ultima ne è la conseguenza logica.

Ora il trattato di Kyoto prevede drastici tagli all’inquinamento atmosferico. Per quanto sopra è evidente che i dipendenti non hanno beneficiate in passato dell’inquinamento. Mentre le emissioni di gas serra, infatti, erano in aumento i salari erano in caduta. Ergo: anche i benefici derivanti dall’uso inquinante di fonti energetiche sono andati al profitto.

Ma esistono altre ragioni per ripensare la politica economica. Gli effetti della crisi climatica sono sempre più evidenti e a medio termine sono in gioco la qualità della vita e il futuro dei dipendenti e dei loro figli. Dopo la pandemia sarà inoltre necessario del tempo perché l'economia ritorni ai livelli pre-crisi.

Una ridistribuzione del lavoro e della ricchezza sarà quindi inevitabile perché la strategia della crescita del passato non potrà essere perseguita per un periodo tuttora incerto in questo momento. Data questa situazione i sindacati dovranno ragionare sulle scelte da fare.

La scelta meno complicata è quella di ritagliarsi in una fase di stagnazione dell’economia una fetta maggiore della ricchezza prodotta per mantenere inalterati i redditi dei lavoratori. O si potrebbero recuperare risorse con una patrimoniale sulle ricchezze accumulate in passato per sostenere l’economia e il welfare. Questa redistribuzione dal capitale dal profitto verso i dipendenti è una questione di rapporti di forza e della volontà dei sindacati e dei dipendenti di impegnarsi in una lotta. Purtroppo le condizioni per riuscire nell’intento non sono ottimali, ma valgono un tentativo.

Il sindacato può però contemporaneamente discutere di tenore di vita e di valori contrastando il dogma del crescente consumo a favore di servizi funzionali e maggiore sicurezza sociale. Allo stesso tempo, uno Stato sociale ripensato e con servizi avanzati può attenuare la necessità impellente di puntare soprattutto sulla crescita.

Mezzi pubblici adeguati per esempio possono rendere poco razionale lavorare per l’acquisto di una macchina. Anche una riduzione dell'orario di lavoro e la possibilità di usare maggiormente il proprio tempo possono essere d'aiuto. Durante il lockdown molti si sono resi maggiormente conto di quali siano i prodotti e i servizi effettivamente necessari e importanti.

Va comunque garantito l'adeguamento degli stipendi, indispensabile per una vita soddisfacente. Esaudite tutte le necessità impellenti e senza eccessive preoccupazioni per il futuro (alloggi a prezzi accessibili, vecchiaia e assistenza sanitaria, l'istruzione dei bambini ecc.), un ulteriore guadagno incentiva soprattutto i consumi, ma non la soddisfazione per la propria vita.

Questo significa che ci sono anche altre priorità nella contrattazione collettiva e non solo il salario. Le società dove ci sono meno diseguaglianze sono più “sane” con un'aspettativa di vita più alta e una criminalità più bassa. Anche un benestante in un paese più equo vive meglio, in sicurezza e meno stressato rispetto a un ricco in un paese con una distribuzione del reddito molto iniqua!

Un tenore di vita meno diversificato e mediamente più simile, attenua la voglia di imitare lo stile di vita dell’élite, rende più felice la collettività e porta vantaggi per l’ambiente. Il sogno di un’automobile sempre più potente è un buon esempio.

Sarebbe più facile elaborare strategie se si partisse proprio dalla consapevolezza che il capitalismo si alimenta dallo sfruttamento del lavoro umano e della natura. Così sarebbe possibile superare il sempre latente conflitto tra posti di lavoro e la protezione ambientale e contrastare insieme certe logiche distruttive. 

La ricerca del massimo profitto è oggi la vera forza trainante e la motivazione per immettere sul mercato sempre nuovi prodotti e servizi. Forse è giunto il momento di discutere e decidere democraticamente cosa sia effettivamente necessario per una "buona vita".
Forse dobbiamo renderci maggiormente conto che il benessere non dipende solo dal numero dei beni di consumo. Forse anche il sindacato deve trovare strategie nuove se vuole essere credibile quando si schiera con i giovani del movimento "Fridays for Future".

Alfred Ebner