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“Il cuore è sempre rimasto a Bolzano”

Mario Mutti e i mitici calciatori dell’Ac Bolzano degli anni '70 ieri, martedì 10 dicembre, si sono radunati davanti allo Stadio Druso per ricordare il periodo d'oro del calcio bolzanino.
mutti stadio
Foto: SALTO
  • Sono trascorsi quasi 50 anni. A quell’epoca Bolzano era bella e spensierata. Una città vivibile, sorretta dalla ripresa economica e dai rassicuranti numeri dell’occupazione. Ristoranti, bar, cinema e balere erano sempre colmi di gente. Ed anche gli impianti sportivi segnavano spesso il tutto esaurito. Specialmente il Palaghiaccio di via Roma. E lo Stadio Druso. Segni evidenti del desiderio che albergava nell’essenza di quella generazione. Di vivere appieno la città. E le sue manifestazioni. Erano anni in cui i ragazzini vivevano le loro giornate in cortile, liberamente. E di giorno, mamma e papà non avevano particolari patemi a concedere loro di allontanarsi da casa. Subito dopo il pranzo domenicale, ad esempio, si correva in viale Trieste. Per mettersi in fila davanti ai cancelli dello stadio. I primi dieci erano i più fortunati. Perché sarebbero stati ingaggiati come raccattapalle. Chi vi riusciva, avrebbe potuto indossare la pettorina della squadra del cuore. E provare la stessa emozione di chi sarebbe poi sceso in campo. Il compenso? Vedere gratis la partita dell’Ac Bolzano, o dell’Oltrisarco, qualche dolciume nei periodi di Pasqua e Natale, ma soprattutto: conoscere di persona i calciatori.

    Alle 10 del 10 dicembre 2024, la scena si è ripetuta nuovamente. A distanza di così tanto tempo. 50 anni dopo, non vi erano le maschere dello Stadio Druso ad accogliere i raccattapalle davanti ai cancelli. Ma alcuni dei mitici calciatori dell’Ac Bolzano di quegli anni. In carne ed ossa. Ad attendere l’arrivo dei loro compagni di squadra di allora. Convenuti per raccogliere l’invito all’adunanza lanciato da Mario Mutti, uno degli attaccanti più forti mai approdati a Bolzano nel ventennio d’oro del calcio biancorosso. Dalla fine degli anni Cinquanta ai primi anni Ottanta. Il primo abbraccio è stato proprio quello tra lo stesso Mutti ed Antonio Rondon. Il mitico Totò. 68 anni portati in modo invidiabile, bomber di razza anche di Brescia, Anconitana, Taranto e soprattutto Vicenza. Proprio lui, originario di Malo, che con le sue galoppate sulla fascia faceva trepidare anche le tribune del Druso. “Ho lasciato mia moglie al mercatino in piazza Walther - rivela Rondon - e sono corso qui, più velocemente possibile!”. 

  • Mario Mutti: uno degli attaccanti più forti mai approdati a Bolzano nel ventennio d’oro del calcio biancorosso Foto: mutti
  • Mario e Totò costituirono una delle coppie di attaccanti più prestigiose, in quelle fortunate stagioni per il calcio bolzanino. La loro intesa ed il loro fiuto per il gol erano straordinari. Un vero incubo, per le difese avversarie. Ed a proposito di queste, alcuni dei loro nomi fanno riflettere su quanto fosse competitiva la serie C negli anni Settanta: Venezia, Padova, Triestina, Udinese, Cremonese, Monza.

    Arriva anche la troupe di TV33, con Alessia Galeotti. E subito dopo, la coppia difensiva per eccellenza dell’Ac Bolzano. Il capitano: Paolo Scolati, libero elegante ed autoritario, uno specialista nel trasformare i calci di rigore. Ed il suo stopper: Cesarino Perezzani. Il randello della difesa. Temuto e rispettato dagli avversari. A distanza di pochi minuti confluiscono anche Piero Alban, Luciano Benedetti. E Fabrizio Broggio (proprio colui che fu vicinissimo a coronare il sogno di giocare in serie A, con la Roma. Trasferimento che non si concretizzò nonostante il lungo corteggiamento dei giallorossi).

  • Mario Mutti insieme a TV33: 73 anni compiuti ad ottobre, in carriera ha battuto i prati di Monza, Sant’Angelo Lodigiani, Pergocrema, Leffe. Foto: A. S.
  • Il primo quarto d’ora, davanti alla storica volta d’ingresso dello Stadio Druso, protetto dalle Belle Arti, è un’interminabile sequenza di abbracci, al limite della commozione. La quantità di tempo, intercorso dall’ultimo incontro tra di loro, è davvero importante. “Ci vuole un brindisi!” - esclamano in coro. Ed alla attigua Bocciofila fanno la loro comparsa due bottiglie di ottimo prosecco, sulle note del quale, si scatena un vero e proprio carosello di aneddoti. Mario Mutti, 73 anni compiuti ad ottobre, in carriera ha battuto i prati di Monza, Sant’Angelo Lodigiani, Pergocrema, Leffe. Ma il cuore è sempre rimasto a Bolzano. “Sono stato tre anni qui - ci fa notare - e sono stato meravigliosamente. Di questo posto ho amato tutto. La squadra, la città, la sua gente, il clima che si respira”.

    In osservanza al protocollo municipale in vigore in quegli anni, tra le competenze del sindaco di Bolzano vi era anche la carica di presidente dell’Ac. “Quando sul tavolo di Giancarlo Bolognini - ricorda Mario Mutti - recapitarono la richiesta del Monza per il mio cartellino, il primo cittadino si attivò per agevolare la realizzazione di un mio desiderio. Restare a Bolzano ed aprire un negozio di articoli sportivi. Assieme alla stella dell’hockey cittadino, Gino Pasqualotto. Lui si sarebbe occupato di hockey e sci. Io di calcio e tennis”. Purtroppo per Mario, sua moglie non se la sentì di stabilirsi così lontana dalle origini della famiglia. E quando l’attaccante scoprì che l’ingaggio offertogli dal Monza era cinque volte superiore a quello garantitogli dall’Ac Bolzano, prevalse la logica del professionismo. “Proprio all’ultima giornata di campionato della stagione ‘75-‘76 - rammenta - affrontammo al Druso il Venezia. Nell’intervallo mi comunicarono l’ufficialità del trasferimento al Monza. Quello sarebbe stato il mio ultimo match in maglia biancorossa. Lo scoramento lasciò il posto alla volontà di lasciare Bolzano con una prestazione all’altezza. Vincemmo 3-0, con una mia tripletta. Ma al fischio finale scoppiai in lacrime”. Dall’altra parte del tavolo, intanto, tiene banco la verve di un Totò Rondon davvero galvanizzato dalla reunion. Anche i suoi aneddoti sono tutt’altro che banali. “Io e Mario - ricorda Totò - formavamo una gran coppia, davanti. Ci completavamo benissimo. Io, passo lungo ed instancabile sulla fascia sinistra. Lui, scatto breve ed imprevedibilità su tutto il fronte d’attacco. In quegli anni c’erano anche Giorgio Girol e Francesco D’Urso. Che fecero bene. Insomma, eravamo proprio una bella squadra”. Quell’Ac Bolzano ebbe il suo momento di gloria durante la stagione ‘76-‘77. Sesto posto finale, in serie C, con Francesco Lamberti come allenatore. Angelo Fogolin e Gianni Ventura totalizzarono 38 presenze su 38 incontri. Ed il miglior marcatore biancorosso risultò essere proprio D’Urso, con 14 reti. I calici si alzano in memoria di coloro che sono recentemente mancati. I ricordi, malinconici, si intrecciano sulle figure e le gesta proprio di Ventura, Luciano Concer, Guido Milani, Luigi Belometti. È sempre Rondon a prendere l’iniziativa. Per disinnescare quell’estemporaneo moto di tristezza. Con un aneddoto dei suoi. “Ricordo benissimo la stagione in cui Roberto Baggio esordì a Vicenza. Aveva poco più di 16 anni. Io ero il centravanti in quella squadra. Contro la Pistoiese, in una delle primissime uscite di Roby, accadde un episodio emblematico. Che mise in risalto la precocità del suo talento. Punizione al limite della loro area. Vicino a me, Eligio Nicolini e Luigino Pasciullo. Mentre concordo con loro lo schema della battuta, Baggio si avvicina al pallone. Ed al fischio dell’arbitro, praticamente da fermo, pennella una traiettoria perfetta, impossibile da intercettare. Stavo già per mangiarmelo vivo. Ma quando sentii il boato della curva e vidi il pallone in rete, rimasi sbalordito...”. A sua volta, seduto a capo tavola, quasi fosse il vero anfitrione di questa piacevole rimpatriata, Mario Mutti risponde al fuoco amico innescato da Totò con un’altra riflessione sulla sua esperienza di Monza. “In quella stagione giocai davvero poco. Solo 12 presenze. Appena due, dall’inizio. I brianzoli erano allenati da Alfredo Magni. E formavano un gruppo forte ed unito, consolidato dalle molte stagioni trascorse insieme. Ariedo Braida, Rubén Buriani, Walter De Vecchi, Giovanni Ardemagni, Ugo Tosetto, Luigi Sanseverino. Il mio bilancio di quella stagione non fu positivo. Ed aumentò il rimpianto di non essere rimasto a Bolzano, nonostante i ponti d’oro che mi gettò il Monza davanti ai piedi...”. A margine dell’affetto e dell’empatia che legano Mutti con Rondon, vi è pure una singolare analogia. Anche Mario ha tenuto a battesimo un grande del calcio italiano. Se Totò si vide scippare un calcio di punizione da Roberto Baggio, anche Mario - nella sua lunga parentesi professionale vissuta a Leffe - in qualità di capitano si vide costretto ad ammansire l’esuberanza e la puerile incoscienza di un altro grande talento. Quello di Beppe Signori. “Un episodio supera tutti gli altri - ricorda Mutti -. Partita a Lecco. Dove, per arrivare al campo dagli spogliatoi, devi praticamente attraversare le gradinate della tribuna. Nella ripresa il mister opera un cambio. Esco io ed entra Beppe. La partita era stata davvero un’aspra battaglia. Perché loro sono, da sempre, una squadra molto scorbutica. Salgo i gradoni della tribuna per tornare in spogliatoio. E qualcuno del pubblico mi punge con una battuta sarcastica: ‘Ma come, entra un ragazzino al posto del bomber?’. Nel vedere Beppe prepararsi a calciare una punizione dalla sua mattonella preferita, alla sinistra del portiere, non mi trattengo. E rispondo: ‘Sì, il capitano esce ed il ragazzino vi fa gol. Proprio adesso!’”. Morale, con il suo sinistro fatato il sedicenne Beppe Signori infilò il gol della vittoria proprio su quella punizione, dal limite dell’area. Una conferma delle sue straordinarie qualità. In quella circostanza Mario Mutti se la vide davvero brutta. Perché dovette scappare e chiudersi a chiave negli spogliatoi per evitare di impattare la rabbia dei tifosi lecchesi. Arriva quasi ora di pranzo. Mario Mutti deve proprio scappare. Ma esibisce ai compagni, in ultima battuta, una serie di fotografie che lo ritraggono sulla sua bici da corsa. Una passione ventennale, sbocciata molto dopo il suo addio al calcio. Ma interrotta bruscamente, a causa dalla pandemia. “In bici non ho avuto rivali - ricorda -. Ho messo insieme sei titoli italiani master di categoria. Moltissime vittorie, tante soddisfazioni. Uscivo praticamente ogni giorno. Per compiere percorsi molto competitivi, di 120-140 chilometri, con tantissima salita. Avevo una gamba davvero invidiabile. Poi è esploso il Covid. Ed il lockdown mi ha costretto a fermarmi”. Non c’è tempo per rivangare nell’oscurità. Quanto meno, non al momento dei saluti, allo scadere di questa luminosissima reunion. E gli abbracci, con cui questa ristretta guarnigione del nobile Ac Bolzano si congeda dai rispettivi compagni d’armi, hanno la stessa intensità di quelli già visti al mattino.