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Abecedario dei tempi bui
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Sono tornati. Mi si dirà che in fondo non se n’erano mai andati, che in qualche riquadro definito da meridiani e paralleli avevano continuato a preparare orrori, ma a me pare invece che un brutto vento di tempesta stia gonfiando le vele, in queste settimane, di una flotta di bastimenti che innalzano vessilli di conquista, di violenza, di oppressione.
I capitani di questa armata non amano la vecchia denominazione di nazionalisti, preferiscono quella di patrioti, di tutori della sovranità nazionale, di difensori di confini che sono pronti a scavalcare,
I nomi sono nuovi ma le movenze di questa danza macabra sono quelle vecchie, già scritte più volte in una storia che in molti hanno dimenticato. Eppure non è difficile decifrare i codici scritti in un passato che è già presente e rischia di essere un futuro angosciante. Basta munirsi di un abecedario nel quale sono elencate parole chiave. Eccone alcune.
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R come revisionismo
È inutile illudersi che l’assetto geopolitico frutto di conflitti sanguinosi, del collasso di un impero, di trattati faticosamente concordati tra antichi nemici possa essere fissato per sempre, che i confini possano lentamente diventare evanescenti, linee tracciate su una carta geografica ingiallita piuttosto che catene di fortificazioni da superare con le armi. Prima o poi arriva il tempo della revisione. Negli anni 30 la grande impresa di Adolf Hitler fu quella di erodere i confini dell’Europa uscita da Versailles. Una Germania sconfitta voleva ribaltare l’esito della guerra accompagnandosi con un’Italia che quella guerra l’aveva vinta ma che agitava il vessillo dannunziano di una vittoria mutilata e di un credito da esigere nei confronti delle grandi potenze occidentali. La revisione di Berlino andò ben oltre spingendosi verso est sino a scontrarsi con un altro revisionismo, quello russo, recuperato, in chiave di potenza dagli archivi zaristi, dall’autocrate sovietico.
Ottant’anni fa, a Jalta, quattro potenti ridefinivano un quadro destinato a reggere in qualche modo sino al crollo dell’impero sovietico e della precaria federazione jugoslava, Solo che adesso la revisione è di nuovo in marcia con una Russia guidata da un ex ufficiale del KGB che vuole tornar signora di terre come la Georgia, le repubbliche baltiche, l’Ucraina.
Revisione è quella dell’americano che vuole portare le stelle le strisce verso sud e verso nord e ci si indigna, giustamente, dell’approccio brutale nei confronti del vicino canadese, dimenticandosi di quando, nel 1967, Charles de Gaulle attraversò l’oceano per incitare alla secessione i francofoni del Quebec.
Poi basta girare il mappamondo per poter puntare il dito su tante revisioni piccole e grandi, A Taiwan aspettano il distruttivo attacco del grande fratello cinese, mentre Russia e Giappone pensano allo scontro sugli isolotti vulcanici delle Curili. Tra India e Pakistan c’è il Kashmir e, dopo la guerra di qualche anno fa, Inghilterra e Argentina hanno congelato il contenzioso sulle Falklands Malvinas.
I revisionisti hanno della fantasia. Dove non c’è un dissidio antico basta innestare la volontà di potenza moderna: ecco la pretesa del Tycoon di Mar a Lago di metter le mani sull’intera Groenlandia, così, perché gli piacciono la posizione strategica e le risorse minerarie. Si riapre alla grande il risiko dei confini e tutti si sentiranno autorizzati a recuperare dal cestino antiche pretese e sanguinarie velleità.
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E come esodo
Non c’è nulla da fare. L’idea di spostare qua e là intere popolazioni così come si cambia posto ai mobili del soggiorno eccita lor signori in maniera incredibile, Non si riesce a credere che il premier israeliano, nel momento in cui si spella le mani per applaudire all’idea del capataz USA di sbolognare nei deserti d’Arabia qualche milione di palestinesi, non si sovvenga di quando, a Berlino, si favoleggiava, ma seriamente, di deportare intere flotte di ebrei nel Madagascar.
La storia degli esodi più o meno forzati è antica come quella dell’uomo, ma la storia recente contempla un numero crescente di queste tragedie collettive. Sono stati consegnati all’oblio gli scambi di popolazione tra Grecia e Turchia, accompagnati spesso spaventosi massacri. Dato che il termine di espulsioni di massa sembra poco elegante adesso è in voga quello di “Remigrazione”. Cambiano le parole ma la violenza e la sofferenza restano le stesse.
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N come nomi
Un’altra cosa di cui possiamo essere sicuri e che i patrioti prima o poi cominceranno a imporre nomi nuovi e, se possibile, a cancellare quelli vecchi. Lo schema mentale è sempre quello: il nome come segno di possesso, come il cartellino segnaposto sulla tavola imbandita, come il getto di urina che l’animale sparge sul tronco per segnalare i suoi simili che quello è il suo territorio, suo e di nessun altro. E allora che il Golfo del Messico diventi pure Golfo dell’America e che la Cisgiordania venga ridipinta sulle carte coi nomi biblici di Giudea e Samaria. Anche qui la casistica storica è pressoché infinita e non c’è pretesa di dominio su un pezzo di terra che non sia stata giustificata con la posizione di un nome nuovo o d’occasione. La cartina di tornasole che identifica lor signori non consiste tanto nell’inventare o recuperare un nome da aggiungere sulla carta geografica quanto nel passaggio successivo: cancellare il nome o i nomi precedenti, cambiare la geografia per riscrivere la storia.
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G come grande (Great)
C’è una parola che non sarà difficile rintracciare inoltrandosi nel labirinto delle sanguinose rivendicazioni storiche di una qualunque nazione: la parola è “grande”. Basta aggiungere all’aggettivo il nome di un qualunque stato e si ottiene, bell’e pronta, una teoria ben corredata di precedenti storici più o meno remoti, di miti romantici. Anche qui l’elenco è talmente lungo da perdersi nelle nebbie della narrazione storica. La Grande Germania segue le croci dei cavalieri teutonici nel “Drang nach Osten” e va a scontrarsi con la Grande Russia di Caterina e di Stalin. La Grande Grecia sogna di scacciare il sultano Maometto dalle mura di Costantinopoli e il nuovo sultano di Ankara vorrebbe restaurare la potenza ottomana. La Grande Albania e la Grande Serbia si fronteggiano nel Kosovo. La Grande Italia voleva fare dell’Adriatico e poi anche di tutto il Mediterraneo un nuovo “mare nostrum”. Se i precedenti storici sono evanescenti poco importa, Mettere le mani sulla Groenlandia o sul Canada serve per ritornare allo spirito dei pionieri, a un’America “great again”.
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Noi che viviamo in questo fazzoletto di terra aggrappato alle pendici di montagne che lasciano aperto un passaggio cruciale tra due parti del continente, quell’abecedario l’abbiamo sfogliato sino in fondo. Non ci siamo fatti mancare nulla in questi ultimi due secoli. Lo scontro frontale tra i due nazionalismi, il balletto dei nomi imposti e cancellati, l’esodo organizzato, vengono i brividi se si risente parlare il Fűhrer che, conversando amabilmente sulla terrazza dell’Obersalzberg, racconta ai commensali che spedirà i sudtirolesi, in una sorta di idilliaca crociera lungo il Danubio, sino alla loro nuova patria, la Crimea, la stessa terra insanguinata oggi da un’altra guerra.
Dopo tutto questo e parecchio altro ancora pensavamo di poter addirittura citare come modello la soluzione trovata per sanare una ferita così profonda. Sapevamo che il successo dell’operazione ancor più che dalle intese bilaterali era garantito l’ingresso dei due Stati in un’Europa unita, da confini diventati evanescenti, dallo sparire di antiche divisioni. La cronaca ci costringe invece a consultare di nuovo l’abbecedario dei tempi bui, a temere che anche per noi certe parole possano essere scritte di nuovo.