Cultura | Salto Afternoon

Landstich

Con "Landstich" lo scrittore Stefano Zangrando fa parte dell’antologia "endet denn der winter nie?" (Raetia). Il libro è un omaggio all’autore norbert c. kaser.
Stefano Zangrando
Foto: Foto: Giulio Monteduro

≪La morte di ciò che e morto è la vita≫ scrisse José Ortega y Gasset nelle Meditazioni del Chisciotte. ≪C’è solo un modo di dominare il passato, regno delle cose defunte: aprire le nostre vene e iniettare il loro sangue nelle vene dei morti≫.
Ortega, un secolo fa, si opponeva con queste parole all’atteggiamento reazionario, che non sa ≪trattare il passato come un modo della vita. Lo sradica dalla sfera della vitalità e, ben morto, lo innalza al trono perche governi le anime≫. È la consacrazione del passato come tale, il blindaggio della tradizione: la sua mummificazione.
Questo atteggiamento, spiega Ortega, non va confuso però con ≪l’antipatia verso il nuovo≫, che è ≪comune ad altri temperamenti psicologici. È forse reazionario Rossini per non aver mai voluto viaggiare in treno e perché gira l’Europa con la sua carrozza dagli allegri campanellini?≫.

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A norbert c. kaser il ≪nuovo≫ non andava particolarmente a genio, benché la sua scrittura ne abbia accolto alcune istanze. Le sue infrazioni grafiche accolgono sì un principio di rinnovamento e abbattimento delle gerarchie suggerito dall’epoca, ma sono soprattutto una ribellione individuale al carattere normativo e repressivo di tutto ciò che è istituzione.
Lo stesso vale per la sua essenzialità, per la concisione anti-sentimentale dei suoi versi e delle sue prose: essa è innanzitutto il frutto di una disciplina individuale contrapposta alla norma e alla sua asfittica normalità, difesa e attacco ad un tempo: kaser era un giovane uomo ferito –  ≪wunden bluten leicht≫ scrisse a Rosmarie Judisch – e la scrittura era la cura, la sua resina: ≪gerne waer ich eine laerche…≫.
Il ≪nuovo≫ che a kaser andava meno a genio era la mercificazione turistica cui la sua terra si stava piegando ineluttabilmente, mutando. Il suo pasolinismo, tuttavia, e forse il tratto più anacronistico della sua eredità. Ma quale eredità? Siamo sicuri di non aver fatto di kaser una mummia sacra? Di essere in grado di iniettare il nostro sangue nelle sue vene?

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C’è qualcosa di moralmente riprovevole nel modo in cui il Sudtirolo iniziò a riabilitare norbert c. kaser subito dopo la sua morte. Se è vero che al suo funerale non ci furono soltanto i comunisti del KPI a intonare il loro Friedhofsjodler, ma anche le donne della SVP a cantare Großer Gott wir loben dich, l’ipocrisia dei conterranei che kaser scontò per tutta la sua breve esistenza conobbe qui, nel frangente in cui gli si sarebbe dovuto portare il massimo rispetto, il suo più sinistro trionfo.
Il cliché del poeta maledetto, la cui fascinazione sui sudtirolesi è stata individuata come una causa di questo riconoscimento post mortem, è quello che a kaser, se solo volessimo provare davvero a rendergli giustizia, stava più stretto. Anticonformisti non si diventa per vocazione, ma per rabbia; alcolisti non si diventa per scelta, ma per coazione: familiare, sociale, di tutta una cultura. È la trappola di una terra amata, ma abitata dall’ottusità, eternamente ripiegata su se stessa, abile tuttavia nel voltafaccia timorato e cantante di fronte alla scomparsa di chi non abbiamo saputo amare da vivo.

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Fu Alexander Langer, secondo il quale ≪Norbert era morto d’isolamento≫, a cogliere il carattere politico della fine di kaser:

dietro la bara di n. c. kaser rivedevo, dopo anni, tutti insieme gli amici ed i compagni di una volta, nella dispersione più ampia, nella comune contraddizione di essere figli di una terra al tempo stesso assai provinciale ed assai ricca di stimoli, combattuti tra la tentazione di voltarle semplicemente le spalle, lasciando cuocere nel loro brodo gli insignificanti e dispotici padrini locali e la gente che li sopporta e li appoggia, e quella di unire le nostre forze per riprovare ancora, per riprendere il discorso lasciato in sospeso, ognuno di noi, anni addietro […] Fu al funerale di Norbert che decisi di tornare nel Sudtirolo. Se non si volevano altri morti cosi, bisognava fare qualcosa.

Fortunatamente, stando al resoconto funebre di Langer, almeno il parroco si sottrasse all’ipocrisia dei voltafaccia, negando al defunto il servizio religioso, dal momento che questi era ≪formalmente e solennemente≫ uscito dalla Chiesa pochi anni prima. C’è da credere che kaser avrebbe preferito l’ostile coerenza di quel prelato alla consacrazione postuma che le istituzioni sudtirolesi gli hanno concesso piegandosi, volenti o nolenti, al valore che la critica letteraria è venuta riconoscendo ai suoi scritti. Del resto, fino a che punto questa consacrazione istituzionale può essere considerata il frutto di un ≪fare qualcosa≫, nel campo culturale, al pari di quello invocato da Langer?

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Il rischio odierno, accingendosi a celebrare ufficialmente norbert c. kaser, è di cadere nella presunzione di essere nel giusto. Quando entra nei palazzi del potere, il progressismo culturale è più insidioso di ogni irrigidimento conservatore o reazionario, perché, non potendo più esercitare una funzione critica, assume il volto dell’establishment buonista. E la sua incomprensione, lungi dall’esprimersi come rifiuto, può assumere la forma della glorificazione – la quale, a sua volta, non è che il volto più euforico del fraintendimento.
Non si tratta di preferire la compunzione alla glorificazione, il pentimento all’ipocrisia, ma di riconoscersi, nel proprio fondo, anti-kaseriani a dispetto delle proprie buone intenzioni: l’Alto Adige-Südtirol non è ancora, e molto probabilmente non sarà mai, all’altezza del suo più notevole e disperato Nestbeschmutzer.

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Una virtù di kaser era nell’incarnare la contraddizione: sapersi ribelle, inesorabilmente contro, accogliere il ruolo dell’enfant terrible, ma sempre consapevole che ciò non basta a fare un vero poeta. Per essere un vero poeta, occorre che l’antagonismo si traduca in forma, densità di linguaggio e visione: bellezza.
Un’altra virtù, a questa imparentata, è la coscienza che la militanza politica, figlia anch’essa di un’inflessibile attitudine al dissenso, non può tradursi immediatamente in letteratura. kaser si spese in misura crescente per la propria terra, sorprendendola con scelte radicali ogni volta che gliene si rivelava l’insufficienza – come quando uscì dalla Chiesa –, ma sapeva che fra questo impegno e la poesia c’è la distanza siderale che corre fra la contingenza della prassi e la durata della poiesi:

Questa è per me una delle lezioni di kaser: non si può essere scrittori se la propria etica non si traduce in un’estetica, se la contraddizione non è vissuta e restituita come dizione.

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Un’altra lezione di kaser di cui mi sento erede è la cura della traduzione, è il suo senso all’interno della propria opera.
La scrittura di liriche in lingua italiana o la traduzione di poeti italiani – fra i quali risalta per specularità il poeta e traduttore dal tedesco Franco Fortini – è forse anche il segno di una consapevolezza politica, per la quale i due maggiori gruppi linguistici dell’Alto Adige-Südtirol non possono comprendersi se non attraverso una crescente padronanza di entrambe le lingue. Credo tuttavia che kaser traducesse e si traducesse innanzitutto per conoscere meglio se stesso. Ci si esplora meglio dal territorio estraneo di una lingua straniera: ci si osserva da fuori, è una forma di coscienza, e un po’ alla volta ci si scopre capaci di abitare anche quello spazio esterno che, non senza meraviglia, si fa via via estensione della nostra dimora.
Nella seconda lingua siamo sempre un po’ ospiti, eppure in essa, se la pratichiamo, ci sentiamo sempre più a casa nostra. Casa, Heim: la pratica dell’italiano è stata forse per kaser la scoperta di un nuovo spazio domestico, l’estensione della propria Heimat.

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Ho scoperto norbert c. kaser molto tardi, troppo tardi, a un’età che lui non ha mai raggiunto, e della sua opera non credo di aver letto abbastanza, o abbastanza a fondo, per potergli rendere compiutamente giustizia, ovvero: per potergli offrire una comprensione più vicina possibile al modo in cui lui avrebbe voluto essere compreso. Non ho che il mio sangue per ravvivarne l’eredità. Credo tuttavia che uno dei torti che non bisognerebbe fargli sia quello di sopravvalutarlo. kaser non era uno scrittore grande, era uno scrittore potente. Il suo valore ancora oggi non è tanto in una forma di universalità, quanto nella drasticità del suo sguardo. La sua scrittura non fa sconti, è intransigente, anche quando si fa pietosa, dolentemente amorosa, come in memoriam sarah fassloch:
≪sie stirbt mir unter / den haenden // bevor ich sie begriffen / faellt / ihr stein ueber sie // sarah≫. O come nelle furiose allitterazioni su Bolzano, la città dove sono nato e cresciuto: ≪hier wird das volk vertreten & getreten verschaukelt vergaukelt verraten…≫. Fedele ai suoi Stadtstiche, kaser è un pungiglione conficcato per sempre nella carne rattrappita del Sudtirolo. La sua opera è un rosso, pulsante Landstich.

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C’è un altro torto che non bisognerebbe fare a kaser: quello di accoglierne unicamente l’antagonismo. norbert c. kaser non era solo contro: contro la mercificazione, contro l’istituzione, contro la morte strisciante che governava la sua terra. Era anche o soprattutto a favore della libera energia vitale, come quella dei bambini cui seppe fare da maestro, scrivendo per loro i suoi testi più teneri e divertiti.
D’altra parte bisognerebbe fugare ogni sospetto di misantropia, respingere l’idea che kaser stesse bene soltanto con i suoi scolari, benché non si possa escludere che li abbia amati sopra ogni altra cosa. kaser non rifiutava gli “adulti”, amici o sconosciuti, ne cercava anzi la compagnia, come uomo e come poeta: ≪Schließlich bin ich der Mensch, der mit den Leuten reden will≫. Ne detestava pero il conformismo, la sottomissione unanime al precetto. Anche per questo è rischioso celebrarne il ricordo. Unirsi in coro a cantarne la memoria, come le donne dell’SVP intonarono il loro canto ecumenico, significherebbe tradirlo molto più che tramandarlo. Rievocarne la nascita anziché la morte, invece, è forse un tentativo già più fedele alla sua visione: fare in modo che norbert c. kaser non sia un ricordo, ma una presenza. Ucciderne la morte e, con il nostro sangue, riportarlo in vita.