Che si dice in quarantena?
Scuole chiuse, sospensione delle attività sportive, Festival studentesco annullato, soliti punti di ritrovo inaccessibili. Tutti i punti di riferimento e di aggregazione sono venuti a mancare.
Come stanno reagendo i giovani all’interno delle loro quattro mura? L’abbiamo chiesto a diversi ragazzi. Alcuni sono diligenti liceali, altri sono universitari fuori sede costretti a tornare nella città natale e altri ambiziosi sportivi agonistici.
Video-conferenze al posto soliti vecchi banchi di scuola, un degno sostituto della normale lezione in classe?
Lorenzo, liceo classico Carducci: “Assolutamente no. Sebbene debba ammettere che, date le circostanze, la soluzione adattata sia più che adeguata, mancano tutte le componenti relazionali che rendono la scuola tale. Con questo sistema viene per esempio completamente a mancare il rapporto studente-professore così come quello tra compagni. Dopo lezione è infatti routine intrattenersi con alcuni docenti per approfondire o per discutere particolari aspetti dell’argomento affrontato e durante le pause intavolare dibattiti tra compagni. Questo è quello che costituisce, secondo me, la parte più formativa della frequentazione scolastica. In questo modo invece tutto si riduce a mere nozioni trasmesse tramite uno schermo impersonale”.
Francesca invece, del medesimo liceo, esprime un punto di vista diverso: “Sento meno definita la barriera gerarchica. In questa situazione i professori sono disorientati tanto quanto noi e questo li fa sentire più vicini a noi ragazzi”.
Dalla dirigenza è arrivata la proposta di ridurre le ore settimanali a 20 dando la precedenza alle materie oggetto d’esame. Cosa ne pensate?
Federica dal liceo Pascoli risponde: “È un incubo. Con la scusa che non è possibile fare le solite ore di lezioni ci sovraccaricano con documenti da studiare per conto nostro, ci scrivono continuamente comunicandoci nuove scadenze. Almeno quando andavamo a scuola i nostri contatti si limitavano alle ore scolastiche, ora invece c’è una totale ingerenza da parte dei professori nelle nostre vite”.
Cosa vi manca di più della vita “normale”?
Anna, studentessa di ingegneria a Bologna: “Mi manca la parte migliore della vita universitaria quindi i caffè alle macchinette, le pause pranzo, il tornare a casa tutti insieme, la componente sociale, insomma. “
Lorenzo: “I rapporti sociali sicuramente. Dalla battuta detta a mezza voce al compagno di banco durante la lezione ai brevi scambi con il barista di fiducia, alle risate con gli amici. Mi sto rendendo conto ora di quanto abbia dato per scontato finora”.
Federica, atleta agonista: “Allenarmi al Campo CONI e il contatto con la natura. Continuo a correre per non perdere l’allenamento, ma da sola, senza il mio allenatore e soprattutto senza la mia squadra. Mi mancano terribilmente.
Francesca: “Quello che mi manca di più sono le prove per il festival studentesco, il rapporto che avevo instaurato con i partecipanti, le risate, gli abbracci.
Punto dolente quello del Festival, come avete reagito quando avete ricevuto la notizia del suo annullamento?
Francesca, partecipante: “Ho pianto tutta la sera”.
Sofia, rappresentante (del Festival) del liceo Carducci: “È stata una bella batosta, molto difficile da digerire. Ci ho messo davvero anima e corpo, come tutti i partecipanti d’altronde, e devo ancora realizzare che tutto ciò che abbiamo preparato nel corso dell’anno non potrà essere portato in scena”.
Alessandro Tacchetti, da ex partecipante ma tutt’ora collaboratore, guarda il bicchiere mezzo pieno: “Sono vicino ai ragazzi, specialmente quelli dell’ultimo anno. Non è facile dover rinunciare alla finalizzazione di tanti mesi di prove e sacrifici. Ciò nonostante, quello che nessun virus potrà cancellare sono i ricordi delle fasi di preparazione. In questi anni di carriera artistica amatoriale ho imparato che l’esibizione ha sì la sua importanza, ma non è nulla in confronto alle ore passate in compagnia”.
Come già puntualizzato da Tacchetti non tutto il male vien per nuocere. Lo stesso pensano Domenico Nunziata e Paolo Sticcotti, i promotori di “Radio Quarantenna”, una “web-radio per stare insieme” come recita la relativa descrizione su Instagram. Abbiamo parlato con Domenico dell’iniziativa.
Come è nata l’idea e come si è concretizzata?
Radio Quarantenna è nata qualche giorno fa, nel giro di una notte. L’idea è partita da alcuni messaggi in una chat di un gruppo di amici. Eravamo tutti entusiasti, così abbiamo provato subito a concretizzare la nostra idea. Siamo rimasti svegli fino a notte inoltrata. Il giorno dopo avevamo già in mente il logo (regalatoci gentilmente dal fumettista Armin Barducci) e un paio di possibili programmi. Paolo Sticcotti e io siamo stati i primi promotori ma adesso ci sono una ventina di persone al lavoro sul progetto.
Quali argomenti trattate a “Radio Quarantenna”?
Beh, sono tanti: si va dalle informazioni utili sull'emergenza alla politica internazionale, dalla cultura allo sport. Cerchiamo di coprire diversi campi, ognuno con le proprie competenze (anche se non siamo esperti, siamo per la maggior parte studenti).
Perché la scelta della radio come strumento di comunicazione?
Abbiamo scelto la radio perché è un mezzo di una potenza discreta. La nostra scelta (quasi immediata) è anche un segno dei tempi: il ritorno all'oralità è forte tra i giovani, basta vedere quante persone ascoltino i podcast nel mondo e quanti ne nascano ogni giorno.
Questa quarantena quindi non è solo un isolamento forzato. È un’occasione per dare libero sfogo alla propria creatività, per leggere qualche libro e per dedicarsi alle proprie passioni. Detto questo, il ritorno alla normalità è atteso da tutti.