Tradizione o reazione?
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La sensazione che si ricava entrando nel padiglione centrale della Biennale di Venezia, il cuore della mostra di Pedrosa, Stranieri ovunque, è quella di entrare in una macchina del tempo che ci riporta indietro di molti anni. Domina la pittura, allineata alle pareti secondo la più canonica delle convenzioni. Trova spazio naturalmente anche qualche scultura ma in modo che gli steccati disciplinari siano rigidamente confermati. Non trattandosi di una mostra storica sul modernismo, poiché lavori storici e contemporanei si trovano a coesistere, vien da pensare che si sia dinnanzi ad una mostra tradizionale, nel senso più usuale, e usurato, del termine. In realtà più che il richiamo alla tradizione a dominare è un clima di “ritorno all’ordine” che cancella in un colpo la fantasia, le aperture e gli azzardi della migliore ricerca di questi anni, impegnata a trasformare in profondità i linguaggi. Un “ritorno all’ordine” che mal si sposa però con l’intento dichiarato dal curatore, e cioè quello di realizzare una Biennale “progressista”, che dia spazio alle diversità.
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La nozione di “straniero” Pedrosa la declina in modo estensivo così da comprendere la marginalità identitaria, di genere, e/o di geografia. “Così, la 60. Esposizione Internazionale d’Arte della Biennale di Venezia (…) sarà una celebrazione dello straniero, del lontano, dell’outsider, del queer e dell’indigeno. Speriamo di accoglierli tutti a Venezia nel 2024.”
Il problema è che non basta che l’argomento della Biennale sia la diversità perché la mostra proponga inediti percorsi di diversità come ci si aspetterebbe dall’arte, essendo il fare artistico “straniero” per definizione. Ciò che mancano nella mostra di Pedrosa sono quei terremoti del linguaggio che fanno delle Biennali dei laboratori di sperimentazione capaci di dar forma ai sussulti di un’epoca.
Stranieri ovunque conferma il modello ormai diffuso di una mostra a tema dove il curatore costruisce il percorso usando le opere degli artisti come se fossero le parole del suo discorso. È un modello talmente collaudato questo da ridursi a un format incapace di riservare sorprese come invece si converrebbe ad una delle manifestazioni artistiche più importanti del mondo. Ed è un modello le cui radici per certi aspetti conducono alle grandi rassegne degli anni ’70, ’80, ’90, ma i curatori in quei casi di chiamavano Harald Szeemann. Germano Celant, Achille Bonito Oliva, ecc. protagonisti sì, ma soprattutto figure impegnate a mettere in gioco il pensiero critico con il lavoro degli artisti nella sperimentazione di forme di dialogo che dal mondo investiva il mondo. In anni più recenti invece si è affermata la figura del curatore come curator, ovvero come confezionatore di prodotti marketing oriented; la Biennale di Pedrosa si muove entro tale tracciato i cui limiti sul piano culturale sono manifesti. -
Era già accaduto in occasione di precedenti Biennali di trovarsi al cospetto di esposizioni a tema di volta in volta “aderenti al presente”, talmente aderenti da perdere qualsiasi valenza critica e qualsiasi vocazione sperimentale. Ciò cavalcando l’equivoco che l’impegno dell’arte stia nei suoi argomenti e non invece nella sua capacità di produrre movimenti tellurici nel linguaggio. D’altra parte l’industria culturale matura, intrecciata saldamente all’industria turistica a cui ormai partecipa pienamente il sistema dell’arte contemporanea, ha bisogno di prodotti che non spiazzino ma assecondino il senso comune e alimentino il culto dello svago. I numeri prodotti di anno in anno dalla Presidenza della Biennale relativamente al gradimento del pubblico evidenziano una logica da share televisivo. La Biennale di Pedrosa non fa eccezione e di contro agli ostentati propositi anti (capitalisti, occidentali, ecc. ecc.) risulta una delle Biennali più prive di qualsivoglia valenza eretica e più schiacciata sul recupero acritico dei temi mainstream, nello specifico quel “politicamente corretto” che l’Europa a grandi passi sta importando dagli States.
A parte la problematica dell’identità di genere, il tema generale, seppur di moda, non è una novità, avendo notoriamente illustri precedenti nel secolo scorso: mostre incentrate sullo “straniero” che con approcci diversi si sono proposte come esempi di ricognizione critica della tensione tra nord e sud del mondo. Pedrosa sembra dimenticare il già fatto e confeziona una sorta di festa del lontano dove passato e presente, nord e sud, est e ovest, genere e generi, sono shakerati in modo da perdere qualsiasi offensività. Ma lo straniero è l’altro e il rapporto con l’altro è sempre un rapporto di frontiera in cui il sé si disegna proprio nell’attrito della diversità; con più lo scarto della diversità aumenta con più il rapporto si fa fecondo. La Biennale di Pedrosa è senza attriti perché nella dimensione dell’intrattenimento propria della cultura e del turismo di massa non c’è spazio per gli attriti, con buona pace delle velleità progressiste del curatore. -
È sempre in nome di tali velleità che Pedrosa costruisce il fulcro della sua mostra: superare una visione eurocentrica del modernismo. Eppure il modernismo è fenomeno europeo e senza togliere nulla ad altre culture il suo diffondersi anche al sud del mondo ha generato echi che tali restano a meno che non si cambi la prospettiva di osservazione. L’esposizione veneziana lo dimostra impietosamente, anche perché a mancare è proprio una nuova prospettiva di osservazione grazie alla quale poter leggere in chiave originale il passato ma soprattutto ritrovare nel presente le forme di nuove epistemologie, ammesso che esistano, a sostegno della tesi curatoriale.
Non aggiunge nulla, in positivo, la mostra dell’Arsenale, dove l’allestimento è da fiera d’arte, una soluzione che massacra l’assoluta particolarità di quegli spazi architettonici, riducendoli a semplice contenitore. All’interno degli stand domina l’etnico dispensato in grande quantità come si conviene a un’offerta turistica nutrita della massimizzazione del “colpo d’occhio”. L’etnico fa parte di quella mercificazione dell’alterità su cui poggia l’intera industria turistica e culturale. In questa chiave poco importa che artigianato e arte si incontrino e si scontrino, si sovrappongano e si distanzino soprattutto se ci si interroga sulle culture non occidentali; ciò che conta, al pari dei ristoranti etnici nelle città del turismo di massa, è rendere appetibile un multiculturalismo di maniera che corrisponde a falsa coscienza piuttosto che a un’attitudine reale.
Dunque La Biennale di Pedrosa cela, più o meno consapevolmente, sotto la patina progressista una vocazione conservatrice e reazionaria che forse è uno specchio del tempo presente.
Che abbia ragione Žižek affermando che “La forma ideale di questo capitalismo globale è il multiculturalismo”? -
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