Andata e ritorno da Ultima Thule
Ultima Thule è un’isola leggendaria. Il primo a menzionarla fu l’esploratore greco Pitea, salpato per un’esplorazione del nord dell’Atlantico intorno al 330 a.C. Da allora è entrata nel mito come l’ultima terra raggiungibile, o come termine per indicare tutte le terre al di là del mondo conosciuto. Ma è anche il luogo da cui il pittore Kinki Texas, al secolo Holger Meier, sembra trarre le sue immagini per farle prolificare, uno spazio fuori dalla coscienza dove ogni idea, ogni invenzione, viene strappata dall’inconscio per essere gettata sulla tela in una sorta di stream of consciousness di colori e segni.
Kinki Texas è nato nel 1969 a Brema, dove vive e lavora, ed il suo nome d’arte è nato da una sorta di malinteso. Riempie i fogli e le tele con irruenza senza riflettere sulla distribuzione dei pesi e degli ingombri sulla superficie, fino al parossismo. Non ama l’accademia e la storia dell’arte ma si fida del suo istinto e della sua fantasia.
La Galleria Alessandro Casciaro di Bolzano propone una sua mostra dal titolo appunto “Ultima Thule – hin und zurück”, inaugurata ieri e in programma fino al 23 aprile. La mostra è un florilegio di sperimentazioni in cui si agitano come su un palcoscenico i personaggi caratteristici della sua produzione, i cowboy e i cavalieri, tra duelli all’ultimo sangue e sadici giochi di dominazione.
Salto.bz: Non posso dire di essere un esperto di arte ma guardando i suoi dipinti mi vengono in mente i graffiti, gli universi distopici di certi fumetti e le immagini allungate ed emaciate di certi quadri espressionisti. Ma quali sono i suoi veri modelli?
Kinki Texas: Propriamente un esperto d’arte non sono neppure io...possiamo ritenerci entrambi fortunati! Di conseguenza però non sono neppure in grado di dire con sicurezza quali siano gli influssi sia stilistici che contenutistici che permeano il mio lavoro.
La cultura pop in un certo senso mi è sempre stata molto più simpatica che non quella accademico-intellettualistica. Mi sento molto più vicino ai fumetti che non all’espressionismo. Ma sarebbe anche semplicistico affermare che i fumetti o i film siano la mia fonte di ispirazione. In realtà mi piace creare il mio universo personale, che altrove ho chiamato “Kinki Texas Space”, e la mia vera ispirazione sono i pensieri folli che mi si affacciano alla mente mentre dipingo.
La violenza e l’orrore – mi passi questi termini – sembrano avere un ruolo preponderante in questo universo fittizio. Questo ha a che fare con il suo modo di vedere la nostra realtà? Oppure in qualche modo sta giocando ironicamente con gli incubi e le paure della gente?
Io nei miei quadri scorgo piuttosto uno humor anomalo e sotterraneo, che insiste su cliché iconografici come i cowboy, i cavalieri o altri stereotipi d’eroe che hanno dei tratti marziali. Non ha nulla a che fare con il mio modo di vedere la realtà. Non tento di giocare con le paure, le preoccupazioni o gli incubi della gente. Tuttavia qualcosa di giocoso c’è senz’altro nel mio affrontare i diversi motivi e rivisitarli, come faccio con la classica figura del cavaliere che rielaboro in molte forme e combinazioni, prendendo spunto anche da altre immagini del nostro background culturale, come faccio col Capitano Achab che cavalca la balena bianca.
Cosa significa Ultima Thule? Perché ha scelto questo titolo?
Ultima Thule è l’antico nome che designava il luogo più a nord alla fine del mondo. È il titolo di una delle tele esposte a Bolzano e da cui la mostra ha preso il nome.
Cos’è per lei Ultima Thule? Un luogo di dannazione o redenzione?
Da un punto di vista personale questo non ha un grosso peso per me. È solo un concetto a metà strada tra la storia e il mito. Possiamo però chiederci senz’altro se nella mostra Ultima Thule sia un luogo della memoria per cui si prova nostalgia oppure un “luogo senza ritorno”. Le mie immagini si prestano ad entrambe le interpretazioni e questo è quello che più mi interessa: la possibilità di dare significati molteplici alle rappresentazioni.
Le immagini che lei disegna hanno una qualità un po’ perversa e per certi versi seducente. Crede che esista una parte dell’essere umano che bisogna reprimere o magari, al contrario, liberare?
In tutta onestà nutro un certo scetticismo sul fatto che l’arte debba occuparsi di queste questioni. Non c’è nulla di tutto questo nella mia pittura. Il fatto che si possa intravedere un che di perverso – kinky - nelle mie immagini credo che sia dovuto soprattutto al fatto che il mio nome d’arte trae in inganno. Tra l’altro è dovuto ad un malinteso e ad un errore di traduzione. Negli anni ‘90 ho allestito due mostre dal titolo “Kinky Texas Graffities” e in quell’occasione mi sbagliai nell’usare l’inglese, intendevo più una cosa come “Shady Texas Graffities”, graffiti malfamati, o qualcosa di simile. Da questo errore di traduzione nacque il mio nome d’arte, il che accadde prevalentemente per opera della stampa. Io ero giovane e la cosa mi divertì molto, perciò ci sono rimasto fedele.