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Tra prezzo e valore

“Ogni transazione in denaro riguardante quest’opera invaliderà la firma del suo autore e di conseguenza trasformerà l’opera stessa in un falso” Cesare Pietroiusti
Avvertenza: Questo contributo rispecchia l’opinione personale dell’autore e non necessariamente quella della redazione di SALTO.

Cominciamo col dire che quella dell’artista è un’attività come un’altra, certo molto interessante e affascinante, ma sempre un lavoro cui operatori specializzati dedicano tempo ed energie, non c’è quindi nulla di strano nel fatto che vengano pagati per le loro prestazioni, esattamente come accade ad ogni altro professionista.

La premessa appare scontata, ma è in realtà doverosa se si vogliono annullare immediatamente gli effetti di quei preconcetti di lontana origine romantica, tanto radicati nell’immaginario collettivo, legati al mito dell’artista povero e maledetto, che hanno dato origine alla figura del genio incompreso, che vive al di fuori delle regole  della società, opponendole la forza autodistruttiva della propria arte.

Di arte si vive e si è sempre vissuto, nell’antichità, nel medioevo così come nel Rinascimento, epoca dalla quale ci sono giunti veri e propri tariffari relativi alle varie prestazioni, che ovviamente variavano a seconda della qualità del lavoro e del prestigio dell’autore, per raggiungere cifre ragguardevoli nel caso di artisti particolarmente apprezzati. Un esempio? Si stima che il valore del patrimonio di Michelangelo Buonarroti, uno degli artisti più ricchi della propria epoca, tra conti e possedimenti vari, si aggirasse intorno ai 50 milioni di euro, malgrado l’artista abbia trascorso la propria vita in modo estremamente sobrio e lamentando fino alla morte la propria povertà.

Se poi dai singoli artisti allarghiamo lo sguardo alla storia dell’arte, notiamo che l’arte si è sempre sviluppata con particolare successo in quelle nazioni nelle quali accanto ad un clima culturale particolarmente favorevole, c’erano condizioni economiche altrettanto propizie, l’Italia del Rinascimento, l’Olanda del diciassettesimo secolo, la Francia di fine Ottocento, gli Stati Uniti del dopoguerra.

Fin qui quindi, nulla di nuovo. Quello che è cambiato negli ultimi trent’anni è il fatto che si sia sviluppato un vero e proprio circuito dedicato all’arte contemporanea, con operatori specializzati e regole proprie, che richiedono da artisti provenienti da contesti e realtà estremamente distanti, il ricorso ad un linguaggio leggibile ma, cosa ancora più importante, commercializzabile.

D’altronde se si pensa alle ragioni per le quali di tanto in tanto determinate opere passano agli onori della cronaca, ci si accorge facilmente che, il merito è dovuto alle quotazioni che hanno raggiunto, più che al genio dell’artista che le ha create. Sono i record raggiunti nelle varie aste ad attirare l’attenzione dei mass media e del pubblico, più che il valore intrinseco o la qualità delle singole opere. Nessuno può negare che una delle opere contemporanee più celebri della nostra epoca sia For the love of God di Damien Hirst del 2007, messa in vendita al prezzo di 50 milioni di sterline, potenziale prezzo più alto di sempre per l’opera di un artista ancora vivente. Il calco in platino di un teschio del Settecento comprato da Hirst presso un rigattiere ha un valore intrinseco di 15 milioni di dollari e commerciale stimato intorno ai 100, pare prenda il titolo (letteralmente “per l’amor di Dio) dall’esclamazione della madre dell’artista quando il figlio le comunicò cosa voleva fare.

Per quanto riguarda le stelle del mercato, New York si rivela ancora la Mecca dell’arte contemporanea, almeno secondo l’esperta di mercato Georgina Adam, che vede al vertice della classifica Jasper Johns con un patrimonio stimato intorno ai 300 milioni di dollari, seguito com’era ovvio da Jeff Koons e meno scontatamente da Cindy Sherman.

E se l’arte da sempre è espressione se non anticipazione del proprio tempo, in un’epoca nella quale non si fa altro che parlare di indicatori economici, spread e bilanci, non stupisce che l’economia sia entrata prepotentemente anche all’interno del mondo dell’arte. Sono molti gli artisti che considerano l’arte come una pura attività economica, anche senza farlo in maniera diretta come Takashi Murakami, fondatore dell’impresa Kaikai Kiki (termini giapponesi per definire elegante e bizzarro), che realizza e promuove una produzione che spazia dalle sculture di grandi dimensioni a veri e o propri articoli di merchandising, che fondono elementi tipici della cultura pop giapponese e statunitense.

Veniamo ora alla citazione iniziale, si tratta delle istruzioni che Cesare Pietroiusti appone a un lavoro del 2008, sospeso tra installazione e performance, che vedeva una parete di palazzo Strozzi a Milano, venire completamente ricoperta da una serie di 3000 biglietti da uno e cinque dollari. La frase è stata stampata dall’artista sul retro di ogni banconota, mettendo in discussione e sfruttando i principi fondamentali del mercato e più in generale del sistema dell’arte, ovvero originalità dell’opera, paternità, proprietà e soprattutto valore economico. Attraverso quest’azione, Pietroiusti scardina i principi fondamentali del mercato dell’arte, impendendo che la propria opera divenga moneta di scambio. Valore intrinseco e prezzo di vendita restano ovviamente due cose distinte, che non per forza coincidono, e sarebbe un errore considerare un’opera dal prezzo spropositato alla pari di una speculazione finanziaria, e anche in quei casi nei quali si venga distratti dallo sdegno dovuto ai prezzi gonfiati dal mercato, ci si dovrebbe chiedere quale sia il vero messaggio che l’opera vuole comunicare.