La disaccoglienza
Il nome cambiato
“Come ti chiami?” – “Il nome me l’hanno cambiato quando sono arrivato a Lampedusa”. Al Fischerhaus di Vintl l’esordio è più o meno questo. In Sudtirolo la palazzina collocata ai bordi della strada statale della Val Pusteria la conoscono quasi tutti. Un anno fa qualcuno ci scagliò contro tre bombe molotov. Per fortuna non ci furono feriti. Sul muro però si vede ancora il segno. Se una delle bombe avesse centrato la finestra, sarebbe potuta andare diversamente. Subito vennero spese parole di solidarietà. Fu organizzato un concerto. Anche per i politici gli ospiti della casa erano diventati “i nostri profughi all’occhiello”. Intanto, i responsabili non sono mai stati trovati. Una ragazzata, forse adolescenti di buona famiglia. Meglio lasciar perdere. E tutto fa pensare che si sia lasciato perdere.
“Vabbe’, ma un nome ce l’hai no?” – “Ismaeli”. Lo scrivo sul taccuino e glielo mostro: “Così?” – “Così”. La verifica di un nome non è mai un processo meccanico. Parlando con una persona di altra lingua, per esempio, bisogna farselo ripetere un paio di volte. Fraintendere diventa facilissimo. I poliziotti e i funzionari che accoglievano i sopravvissuti ai terrificanti viaggi della speranza (o piuttosto della disperazione) probabilmente erano sopraffatti anche dai più semplici compiti ermeneutici. Bisogna pensare ai numeri. A centinaia, a migliaia da registrare in fretta, sotto l’effetto di una comune stanchezza. Si fa presto a sbagliare, a semplificare, a livellare. I nomi non sono mai consequentia rerum, conseguenza delle cose. Semmai delle circostanze. E in certe circostanze già portare un nome insolito, o pronunciato in modo esotico, può diventare un ostacolo molto alto.
Storie di ordinaria diffidenza
Ismaeli qui un anno fa non c’era, abitava a Bolzano. Le molotov gliele hanno solo raccontate. Ma storie di ordinaria diffidenza ne conosce molte anche lui. “Quando incontro la gente si vede subito che vogliono tenersi a distanza, però a me sembra che vogliono stare a distanza anche fra loro”. Südtirol ist nicht Afrika, mi viene da pensare. “Ma un po’ di tedesco lo parli?” – “No (ride) non so neppure tanto bene l’italiano”. Invece a me pare che lo sappia benissimo e gli chiedo come ha fatto per impararlo. “Ho frequentato dei corsi. Però penso che l’avrei imparato meglio se invece di stare a scuola, in una classe con cinquanta persone, fossi andato a lavorare. Una lingua s’impara lavorando”. Per un momento temo che voglia usare il termine “immersione”. In ogni caso ha notato anche lui che qui la presenza di un forte dialetto tedesco non rende facile la comunicazione: “Adesso ho un lavoro, a Brunico. Là parlano tutti il dialetto, il capo parla italiano con me”. Davanti a vicende come la sua, lacerata da cima a fondo dalle insidie della lontananza, le nostre stupide fratture della vicinanza perdono completamente peso.
Trovare una casa
Il vero problema di Ismaeli e degli altri diciassette inquilini del Fischerhaus è un altro. Ben più serio. Tra pochi giorni dovranno andare via, la palazzina non potrà più dar loro riparo. Il 30 aprile scade infatti il termine di soggiorno che fu garantito ai profughi provenienti dalla Libia. Fuggirono a migliaia, da quel paese insanguinato dalla guerra, anche se molti di loro erano di altre parti dell’Africa. Come Ismaeli, che è nato nel Mali. Un’esperienza sudtiorlese durata quasi due anni, senza però creare né effettive condizioni d’inserimento all’interno della nostra società, né tantomeno costruire i presupposti per un ritorno nei paesi d’origine (paesi ai quali non pochi non vogliono tornare perché non possono tornare). In pratica una lunga domenica della vita, intervallata da qualche piccola occupazione comunque insufficiente a garantire una prospettiva esistenziale in loco, e destinata così a finire molto probabilmente nella clandestinità coatta. “Se dobbiamo andare via – continua a ripetere Ismaeli – per noi sarà una tragedia. Ci daranno un po’ di soldi, certo, ma con quei pochi soldi non possiamo fare nulla, dove andremo a dormire? Qui trovare un alloggio è molto complicato. Per noi è addirittura impossibile. Non so come faremo”.
Fare qualcosa
Mentre parlavo con Isameli sono arrivati anche gli altri. Mi offrono un bicchiere di plastica colmo di Fanta. Poi ognuno smette di parlare. L’unica domanda che rimane sospesa ce la indirizziamo reciprocamente con gli occhi: bisogna fare qualcosa. Ma chi può far qualcosa, se è addirittura la legge a lasciarti brutalmente cadere dopo averti mantenuto alcuni mesi in uno stato di sospensione improduttiva? L’Italia è il paese delle deroghe: molte deroghe ai ricchi e nessuna per i poveri. Ci potrebbe mettere una pezza la Provincia? Dalle parti di Bolzano ogni scarto rispetto alla legislazione “romana” è sempre visto come una splendida medaglia da appuntare al petto gonfiato dall’orgoglio autonomistico. Forse basterebbe allora un intervento degli organi competenti, affinché il termine del 30 aprile venga prorogato. Pare che dopo nessuno abbia intenzione di utilizzare il Fischerhaus. Verrebbe semplicemente chiuso. Ma se rimanesse aperto ancora per qualche tempo, se si riuscisse ad aiutare questi ragazzi a trovare un’altra sistemazione, a diventare veramente autonomi? Perché quando l’assistenza finisce, i problemi che sembravano superati si ripresentano negli stessi termini di prima, forse addirittura persino peggio di prima. Facciamo qualcosa affinché ciò non accada.
Impotenza
è ciò che si sente di fronte a questa problematica, perché i profughi sono tantissimi, l'Africa è immensa e questa Italia non sembra essere molto più capace di organizzarsi politicamente di molti dei paesi africani... solo che abbiamo le risorse - nemmeno meritate...