Politica | Convenzione

Solo ordinaria manutenzione?

Non saranno i meccanismi di nomina degli organi consultivi a determinare la qualità della revisione dello Statuto di Autonomia, ma il contenuto dei temi in discussione.

Cinque ore e dieci minuti. Questo è il tempo impiegato, nel pomeriggio del 29 gennaio 1946, dall'Assemblea Costituente, per discutere e a provare il primo statuto della regione Trentino Alto Adige. Rileggevo, nei giorni scorsi, il testo stenografico della seduta iniziata, come da programma, alle 16:00 e conclusosi alle 21.10. Un tempo breve, occupato per la gran parte dalla lettura degli articoli, con un dibattito ridotto al minimo. In apertura e in chiusura gli interventi del presidente del consiglio Alcide de Gasperi, vero padre e artefice del progetto di statuto regionale e, nel mezzo, pochissimi interventi. Unici argomenti ad attirare l'attenzione e le obiezioni di qualche padre costituente furono quello della scuola, con i timori del socialista Tristano Codignola, per l'eccessiva autonomia concessa agli istituti tedeschi dell'Alto Adige e quello dell'energia elettrica, con qualche richiesta di precisazione, arrivata probabilmente su impulso esterno della potente lobby dei proprietari di centrali idroelettriche.

Tutto qui.
Lo statuto approda in aula dopo una fase preparatoria semisegreta, davanti a una commissione della quale non facevano parte i rappresentanti delle popolazioni interessate, con l'unica eccezione della deputata trentina Conci. Gli esponenti delle minoranze tedesca e ladina furono ascoltati come semplici postulanti. Il primo statuto fu catapultato dall'alto, in questa maniera e con queste premesse, sulla complessa realtà di una regione appena ricostituita dopo la divisione voluta dal fascismo e dopo le turbinose vicende belliche. I risultati si sono visti.

Tutt'altra storia quella che racconta della nascita del secondo statuto, all'inizio degli anni 70. Una nascita preceduta da una lunghissima e logorante trattativa, iscritta nel triangolo Roma, Bolzano, Vienna e punteggiata dall'eco delle esplosioni della "guerra dei tralicci". Questa volta gli ex postulanti, ovverosia gli uomini della Suedtiroler Volkspartei sotto la guida di Silvius Magnago, diventarono interlocutori praticamente unici del governo di Roma. La lunga fase preparatoria, con il "pacchetto" approvato a stretta maggioranza dal congresso del partito, a Merano nel 1968. Questa volta il dibattito parlamentare ci fu con le esibizioni oratorie dei missini degli esercizi di analisi politica, ma anche di retorica, di tutti gli altri parlamentari. A restar fuori da questo tracciato politico il gruppo italiano dell'Alto Adige e tutti i sudtirolesi, ma in effetti a quei tempi non erano molti, che non si riconoscevano nella stella alpina. Lo stesso metodo, trattative riservate e dirette tra la Suedtiroler Volkspartei e governo, fu seguito nel ventennio successivo per la lunga e tormentata fase di attuazione della seconda autonomia con i periodici incontri tra Silvius Magnago e i presidenti del consiglio a delineare le scelte politiche di fondo e le riunioni della commissione dei sei guidata da Alcide Berloffa ad attuarle nella pratica.
Anche gli avversari più tenace coerenti e quel metodo dovranno oggi convenire che esso fu in buona parte frutto di necessità. Se, nel clima di quegli anni, con un'opinione pubblica italiana istigata a vedere nell'autonomia, in qualunque autonomia una sorta di preludio ad una cacciata eguale a quella toccata in sorte agli italiani di Istria e Dalmazia e con un gruppo tedesco profondamente diviso al suo interno sulla scelta autonomistica di fondo, si fosse deciso di lavorare e di costruire con un cantiere a cielo aperto in quel di Bolzano, la situazione sarebbe probabilmente degenerata e non si sarebbe concluso mai nulla.

Il fatto è, però, che con quel metodo, quello della segretezza, dei blitz parlamentari, delle competenze ottenute garantendo qualche voto in occasione di difficili passaggi parlamentari, si è andati avanti anche dopo il 1992, con un'autonomia ormai completa, con un clima politico del tutto diverso, con una gestione delle cose altoatesine ormai saldamente in mano alla minoranza linguistica. I risultati, di nuovo, si stanno vedendo, con una crescente disaffezione per questa autonomia non solo da parte del gruppo italiano che continua a sentirsene estraneo, ma anche in quello tedesco, con le generazioni più recenti che rivoltano sdegnosamente le spalle.

Tutti d'accordo, dunque, nel metter mano nuovamente allo statuto, per la terza volta, e qui inizia l'avventura della famosa Convenzione/Konvent, che dovrebbe redimere finalmente un passato di esclusione di molti tra coloro che in questa terra abitano, dalle scelte cruciali per il suo futuro.
Sarà così?

Bisogna innanzitutto chiarirsi bene su una cosa. Se quel che si vuole è solo dare una rinfrescata alla vecchia casa, eliminando qualche mobile tarlato e ripulendo i soffitti dalle ragnatele, non c'è bisogno di far venire l'impresa di costruzioni. Bastano un robivecchi e una mano di pittura. In Parlamento sono già depositate proposte con gli aggiustamenti dello statuto che qualcuno, a Bolzano, considera necessari per mandare avanti la macchina senza intoppi nei prossimi decenni. Una discreta potatura agli articoli, per eliminare ad esempio fastidiosi divieti sul possesso da parte della provincia di emittenti radiotelevisive o vincoli troppo rigidi al bilinguismo dei nomi.

Se invece l'idea è veramente quella di ristrutturare completamente il vecchio edificio,  adeguandone gli interni ai tempi che sono profondamente cambiati, da quando, alla metà degli anni 60, fu concepito, allora è il caso di aprire veramente un grande dibattito tra tutti i gruppi e tutti gli strati della società altoatesina, nessuno escluso, per costruire una terza autonomia veramente adeguata al nuovo millennio.

Se il primo statuto fu quello di un'autonomia regionale gelosamente tenuta tra le grinfie del potere trentino e il secondo, inevitabilmente, quello di un'autonomia demandata totalmente al livello delle due province, il terzo non potrebbe e non dovrebbe esser altro che quello di un'autonomia alla quale, in parte consistente, le province decidono di rinunciare delegandola ad altri livelli. 
Qualche esempio per chiarire.

In senso orizzontale. Nessuno può ragionevolmente pensare, oggi come oggi, che temi come quello della sanità, quello della cultura e istruzione, quello dei trasporti, quello della gestione delle fonti energetiche possano continuare ad essere affrontati e risolti nel chiuso di un ambito territoriale di 7400 chilometri quadrati e con una popolazione di 500.000 abitanti, meno probabilmente di quelli che abitano un quartiere di Milano o di Monaco di Baviera. Gestire il potere a livello locale significa anche capire quando questo potere deve essere riportato ad un livello diverso. E qui che entrano in gioco progetti importanti come quello dell'Euregio, a patto che cessi di essere un giochetto propagandistico e divenga solida realtà progettuale.

Verso il basso. La bulimia irrefrenabile di potere, di competenze e di finanziamenti da parte della provincia di Bolzano, in questi ultimi decenni, non  è stata rivolta solamente verso Roma, ma si è esercitata anche sugli enti locali minori, i comuni soprattutto. Ormai tutto si decide a palazzo Widmann dalla dislocazione dei lampioni stradali alla durata delle pause nelle scuole. A Bolzano, ad esempio, giustificando ogni intervento con lo strumento urbanistico degli interessi sovra comunali, la  Provincia ha fatto il bello e cattivo tempo costruendo, spostando, affittando uffici ora in una ora nell'altra zona della città, realizzando indubbiamente anche opere importanti, ma sempre senza prima sottoporre i suoi piani al governo della città perché giudicasse se si erano compatibili con il proprio progetto urbanistico.

Il nuovo statuto non potrà non restituire dunque ai comuni una buona parte delle competenze perdute assieme ovviamente ai relativi finanziamenti che oggi sono erogati col contagocce rendendo di fatto impossibile anche l'esercizio dei pochi poteri rimasti, se non al prezzo di trattative estenuanti e a volte anche un po' umilianti con gli uffici provinciali. Per quel che riguarda il capoluogo, che con San Giacomo e Laives forma ormai un unico agglomerato metropolitano che raccoglie un quarto di tutti gli abitanti della provincia (ed anche questo è un tema che prima o poi bisognerà mettere nel conto di affrontare) si dovrebbe pensare ad una sorta di "status" particolare, con competenze ancora più determinate e soprattutto finanziamenti certi e molto più robusti di quelli odierni. Nulla a che vedere, sia chiaro, con i balordi progetti di qualche sociologo padovano che, anni fa, proclamava a gran voce la necessità di realizzare a Bolzano un "cantone degli italiani". Qui si tratta semplicemente di restituire al capoluogo autonomia decisionale su questioni specifiche come quelle urbanistiche o culturali.

Verso autorità indipendenti. Qui il discorso si fa complesso. La Provincia autonoma è oggi un colosso politico che si muove, senza dover rendere conto a nessuno, su terreni molto delicati. Il caso SEL ha messo in chiaro come i conflitti di interessi possano portare a esiti devastanti, ma non è l'unico. Un'altra questione che prima o poi andrà affrontata e quella dell'assoluto potere discrezionale che la giunta provinciale ha assunto nel delicatissimo settore della comunicazione e dei rapporti con i "media". Il problema non si risolve andando a contestare i singoli stanziamenti o le singole operazioni. Occorre che tutta la questione venga affrontata togliendo dall'autorità discrezionale del potere esecutivo ogni possibilità di intervento e demandando il tutto, a cominciare dalla nomina dei componenti delle autorità di controllo, a strutture esterne, completamente sciolte da ogni vincolo di nomina e di dipendenza con la provincia.

Questi alcuni percorsi sui quali ci si potrebbe inoltrare, proficuamente a parere di chi scrive, se si volesse rivedere la struttura del potere all'interno di una terza autonomia. Poi ci sono questioni aperte da tempo come quella dell'organizzazione scolastica (articolo 19) e quella della compressione di alcuni diritti, quello di voto ad esempio, in ragione della tutela delle minoranze.

Se le questioni in gioco saranno queste e se su questi temi si aprirà un dibattito veramente concreto, non dovrebbe essere difficile coinvolgere in esso le forze politiche, quelle sociali anche i singoli cittadini a tutti i livelli. Poi, inevitabilmente, arriverà il momento in cui qualcuno dovrà decidere, ma il terzo statuto potrebbe nascere in modo molto diverso dai due che l'hanno preceduto.

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Thomas Benedikter Dom, 04/26/2015 - 22:27

Veramente interessante questa breve ricostruzione della genesi dei due statuti di autonomia di Ferrandi, entrambi imperfetti, figli delle circostanze politiche, decise dalle elite dei 2-3 partiti al potere in quegli anni, certamente non includendo la popolazione. Fu la sola "Landesversammlung" della SVP ad approvare iol secondo statuto a stretta maggioranza.
Oggi non solo tocca di aggiustare l'autonomia,ma soprattutto di completarla, aggiornarla, sfruttando lo spazio che un sistema moderno di autonomia territoriale potrebbe offrire, in barba al vento centralista che soffia da Roma.
Mi auspico anch'io, come Ferrandi, che il terzo statuto nasca diversamente, consentendo più partecipazione diretta dei cittadini, partendo da un sincero dialogo e dibattito fra tutti i gruppi linguistici. Purtroppo la "Convenzione per l'autonomia", approvata qualche giorno fa dal Consiglio non promette bene per un processo partecipativo ben impostato.

Dom, 04/26/2015 - 22:27 Collegamento permanente