Cultura | Gastbeitrag

Le mille strade della musica

Nell’esperienza di Marcello Fera spicca perenne ricerca della propria identità, al di là di ogni schematismo.

Marcello Fera svolge parallelamente attività di compositore, violinista e direttore d’orchestra. Vive e ha la sua base operativa a Merano, ma è nato a Genova quasi 50 anni fa. E della sua provenienza geografica ne va malcelatamente orgoglioso. È dal capoluogo ligure che il giovane musicista (a 12 anni si esibiva in teatro come violinista e improvvisatore) si orienta al mondo in generale, e al mondo della musica in particolare, conseguendo il diploma di violino e cimentandosi in ambienti disparati. Negli anni di apprendistato fa infatti esperienza d’orchestra,
in ensemble da camera, di musica per il teatro, in formazioni che affrontano repertorio popolare e si dedica alla prassi esecutiva barocca su strumenti originali. La strada si va ancora ramificando e a partire dagli anni novanta dà vita ad alcune formazioni proprie che operano nei campi dell‘improvvisazione, della canzone e del repertorio classico.
È in questa fase della sua carriera che intensifica l’attività di compositore e direttore presentando regolarmente lavori propri in pubblico. «Il mio lavoro di musicista - afferma Fera - è da anni indirizzato alla realizzazione di un paesaggio proprio, in cui identificarmi e stare a mio agio». Si tratta di una caparbia ricerca di un mondo sonoro originale, di «ciò che vorrei che fosse ma non è».
Allo scadere del vecchio millennio, Fera fonda infine quello che si rivelerà il suo organismo più stabile e prolifico, l’Ensemble Conductus, di cui è parallelamente direttore artistico e musicale. E da allora le scene lo vedranno coinvolto stabilmente anche come direttore artistico della stagione Sonora e responsabile delle attività musicali di Merano Arte. L’Ensemble Conductus è una piccola orchestra d’archi composta da un nucleo stabile di 12 musicisti che si caratterizza da subito per l’originalità dei programmi e della prassi esecutiva. Spirito dell’ensemble è il mettere a confronto tradizione e contemporaneità, mentre un’attenzione tutta speciale viene dedicata alla rilettura di materiali di origine popolare. Un ponte tra passato e presente, tra colto e popolare, tra esecuzioni in prima assoluta e musiche di repertorio presentate sotto una nuova veste. Quale il filo rosso che lega i vari progetti? L’obiettivo è quello di garantire sempre un impatto di forte comunicazione col pubblico e di ritagliarsi una posizione tutta particolare nel panorama concertistico attuale. In questi anni Conductus ha realizzato numerose produzioni, spesso a servizio di temi e idee nell’ottica del concerto inteso come progetto culturale. Nella attività di produzione dell’ensemble ha un posto di un certo rilievo anche il teatro musicale declinato secondo diverse modalità espressive. Per farsi un’idea della variegata attività del gruppo, ecco alcuni dei nomi con i quali ha lavorato il Conductus, oltre ovviamente allo stesso Fera: i direttori Michael Kapsner, Tonu Kaliuste, Michael Radulescu e le formazioni e i solisti di fama internazionale quali Stephan Picard, Gemma Bertagnolli, Claudia Schneider, Maria Pia de Vito, Estonian Philarmonic Choir, Giacomo Agazzini, Luisa Sello, Massimiliano Genot, A Filetta, Gabriele Mirabassi. Per i riferimenti con le istituzioni musicali del territorio, nominiamo le collaborazioni con l’Accademia Europea d’Organo di Coldrano, Musik Meran, Associazione Musicale Meranese, Ars Cantandi, Südtirol Classic Festival-Settimane Musicali Meranesi, Festival di Musica Contemporanea di Bolzano, Kunst Meran - Merano Arte.
Marcello Fera ha anche registrato trasmissioni radiofoniche e televisive per Rai, Bayrischer Rundfunk, ZDF, ORF, Radio France, mentre suoi lavori sono stati pubblicati in CD da Bottega Discantica e Rai Trade - Ducale.
Data l’eterogeneità delle proposte che vedono impegnato il musicista ligure-altoatesino, la nostra intervista avrà connotati fluttuanti: leggermente geografici, etnici, politici, manageriali, artistici.

Genova e Merano, un confine d’acqua e uno di roccia. La costa ligure e le Dolomiti sembrano entrambe sospese tra libertà, viaggio e barriera, nido. È d’accordo con queste visioni?
Sono nato coi monti alle spalle e il mare davanti agli occhi. Sud in fronte, nord alle spalle, ponente a destra e levante a sinistra. Ancora oggi faccio fatica a orientarmi fuori da queste coordinate... La sua similitudine mi convince ma fino a un certo punto. È vero che il mare è - anche - una barriera, ma delimitata dall’orizzonte. La cosa non è priva di conseguenze.

Certo, il mare come ponte tra una terra e l’altra. A proposito di ponti, come è stato per Marcello Fera adattarsi a questi nuovi spazi, a queste nuove terre, ricche da un lato, sicuramente difficili dall’altro? Che ruolo ha giocato la musica in questo suo processo di adattamento?
Sono ricordi lontani perché ormai abito qui da ventiquattro anni vale a dire la metà degli anni che ho vissuto. I primi tempi ricordo di aver subito percepito come una fortuna il provenire da altrove: mi garantiva uno sguardo più lucido e oggettivo, meno influenzato dalle dinamiche a cui giocoforza soggiace chi è nato e cresciuto sempre nello stesso ambiente. Un vantaggio che credo di aver saputo cogliere per il mio inserimento. La musica è senz’altro determinante per quello che sono, per il posto che occupo nel mondo e oserei dire anche per il “diritto di parola“ guadagnato all’interno del contesto sociale. Non ho altra forza o altro potere che essere un cittadino e un musicista. Quel poco di credibilità di cui godo proviene essenzialmente da ciò che ho fatto come musicista.

Se la musica è spesso definita come un ponte tra le culture, un linguaggio che va oltre le differenze linguistiche, essa è anche innegabilmente portatrice di identità sociali. Le quali possono essere messe a confronto e rimescolate. Infatti la musica da lei composta come la musica non sua ma da lei promossa ha spesso la tendenza a collocarsi tra i generi, tra i confini, come a voler sbirciare curiosamente al di fuori dei propri codici espressivi. Mi sto riferendo ad esempio al suo impegno nell’improvvisazione, nel folk, nella classica, nella musica antica, nella canzone popolare e leggera. La sua apertura ai generi, a sconfinare, è una scelta di campo, un fatto naturale o qualcosa d’altro?
Io la percepisco come un fatto naturale guidato dalla necessità di realizzare lavori in cui potermi identificare appieno. Non per autoreferenzialità ma perché convinto che sia fondamentale realizzare un prodotto autentico, veritiero, due aggettivi che penso siano l’unica garanzia di qualità nel nostro lavoro. Questo processo di identificazione nel mio caso passa necessariamente per esplorazioni che intercettano generi diversi, a partire dall’alveo naturale che è quello della musica classica. È un fatto che si lega anche alla realtà del nostro tempo: viviamo immersi in un mare di frammenti dalle origini disparate. Tra queste compresenze frammentarie individuo e cerco di realizzare percorsi di senso.

Ora mi piacerebbe conoscere qualcosa a proposito della sua scelta di avere come riferimento istituzionale la consulta mista. Nè italiana, nè tedesca, ma appunto mista, non uno dei due grandi blocchi, ma quello più isolato e intimo, più piccolo e forse più sfuggente.
La nostra associazione e il nostro ensemble sono formati da membri che appartengono ai diversi gruppi linguistici. La stessa cosa, visto che facciamo musica, vale per i nostri committenti locali. Mi parrebbe strano e innaturale non essere una associazione mista.
Il fatto che ciò significhi essere relegati a una condizione un po’ minoritaria, o addirittura di isolamento come dice lei, è però cosa determinata dalla politica e dalle istituzioni, non certo da una scelta nostra.

A tal proposito, per evitare forse anche distinzioni di peso tra i vari assessorati, in tempi recenti si discute del percorso che porterebbe ad un assessorato unico. Per alcuni un tabù, per altri un’utopia, per altri ancora qualcosa di concretamente realizzabile in un futuro più o meno lontano. Lei che ne pensa?
Io credo che sarebbe una soluzione auspicabile. Sia per motivi economici e di efficienza amministrativa, sia perché aiuterebbe a far crescere la qualità delle proposte culturali laddove perdesse forza la referenzialità di gruppo. In altre parole: qualità versus appartenenza. Le ragioni per cui esiste questo assetto le conosciamo, sono serie e rispettabili, quindi è chiaro che dovrebbe essere un processo lungo, concordato e graduale. Chi nutre la paura di “venir sopraffatto” da una controparte probabilmente non capisce che coltiva il proprio isolamento giocando in difesa del gruppo. Un primo passo potrebbe appunto essere il rendere centrale la consulta mista.

Allora possiamo giungere alla domanda più brutale. Sempre tra virgolette, ben inteso. Lei si sente un italiano integrato? Mi vergogno della domanda, ma mi interessa la risposta! 
Ecco, se si vergogna non dovrebbe farla questa domanda! Scherzi a parte, non so granché cosa risponderle. Perché è una domanda che io stesso non mi pongo. Tendo ad essere un po’ eccentrico a qualsiasi contesto e da questo deriva anche la particolarità del mio profilo professionale e artistico. La tanto discussa convivenza presenta obiettivamente dei problemi ed esiste obiettivamente un problema dell’essere italiani qui. Ma la cosa si può superare solo se, consci dei problemi e delle differenze, si impara a pensarsi uomini e cittadini, non italiani o tedeschi.

Parlerei ora più specificatamente della sua attività come direttore. Mi sembra che lei si trovi a suo agio in mezzo a persone creative, collaborando volentieri con musicisti che sono, oltre che professionisti, appassionati alla musica e al loro lavoro. Una qualità forse non scontata. È così?
Ho bisogno da chi lavora con me di elasticità e adesione al progetto. Ho avuto la grande fortuna di raccogliere un gruppo di musicisti che hanno queste qualità e che sono cresciuti con la mia musica che ha delle caratteristiche specifiche. Tanto che sono molto più bravi a suonarla di altri abituati anche a cose più complesse. Un amico mi ha definito scherzosamente “caotico perfezionista”, una definizione in cui mi riconosco abbastanza se non presa troppo alla lettera. Certo è che con me non si lavora mai su un terreno scontato e questo, per chi ne ha voglia, è una grande occasione di stimolo che di solito mi viene riconosciuta. C’è la coscienza di lavorare a un’idea, a un progetto culturale e non a una semplice esecuzione. Questo è avvenuto anche con i numerosi illustri solisti con cui abbiamo collaborato che hanno trovato in noi una logica “altra” in cui riconoscersi per costruire insieme nuovi progetti altrove magari più difficilmente realizzabili.

I suoi critici, pur riconoscendole indubbie doti di fantasia e inventiva, le addebitano però alcune incertezze da un punto di vista della tecnica. Come risponde?
Io ho spesso accettato di lavorare in condizioni di precarietà, mi sono preso dei rischi e ho commesso degli errori. Probabilmente pago subendo questo pregiudizio che sarebbe peraltro facilmente smontabile verificando la maggior parte del mio lavoro degli ultimi anni. C’è poi secondo me un grande malinteso in campo musicale sulla parola “tecnica”. Generalmente la si intende come un know how dato che ti consente di fare più o meno bene le cose. È una verità molto parziale. La tecnica di fatto è ciò che tu- il tuo corpo - metti in atto per realizzare un determinato risultato. Se lo raggiungi “hai tecnica”, se il risultato è interessante hai un buon prodotto. Punto. Un chitarrista blues del delta che suona la chitarra in modo inconcepibile per qualsiasi chitarrista accademico si può dire che “non ha tecnica”? Evidentemente no, la sua tecnica è perfettamente commisurata al linguaggio che usa, il quale è a sua volta determinato dalla sua “tecnica”. C’è una splendida intervista a Radio 3 su questo argomento a Maria Joao Pires - una delle più grandi pianiste classiche viventi - credo reperibile su podcast che consiglio vivamente.

Oltre alla musica sua, lei lavora anche a progetti che vedono coinvolti altri compositori. Quali strategie adotta per scovare musiche altrui? Cosa, in sostanza, va a cercare di stimolante in una musica da proporre ad un pubblico?
Non ho criteri particolari. La mia linea guida è che se quello che propongo convince me, allora, nel limite della naturale percentuale di dissenzienti, convincerà anche il pubblico. Finora l’esperienza mi ha dato ragione. Devo comunque specificare che difficilmente con Conductus facciamo dei semplici programmi da concerto messi insieme su una logica “di gusto”. Quasi sempre si lavora su un’idea, un percorso che lega insieme i vari brani proposti. È da questo presupposto che poi, di volta in volta nascono le scelte.

Come valuta il panorama musicale contemporaneo (mondiale)? È un organismo in salute? Dal punto di vista puramente artistico, intendo. A prescindere dalla crisi economica, se possibile.
Oddio, non credo di essere in grado di tastare il polso al mondo e non mi giudico esperto se non delle mie cose, però mi pare di sì, che sia in ottima salute. C’è un sacco di gente che scrive bella musica e i pubblici oggi sono molto più interessati alle nuove proposte che vent’anni fa. Alcuni raffinati compositori diventano addirittura quasi popolari, per quanto lo possa diventare un musicista classico, guardi ad esempio il caso di Lang portato a un pubblico enorme dai film di Sorrentino...

Adesso cinque o più aggettivi per descrivere la sua musica. Così, d’istinto, senza pensarci. 
Personale, lieve, ritmica, passionale, istintiva, veritiera.

E scegliendo a forza tra un progetto recente che le ha dato molta soddisfazione, cosa ci nominerebbe?
La collaborazione tra Michele Rabbia e l’Ensemble Conductus dedicato all’improvvisazione e alle musiche di Moondog. E poi The String Theory, progetto che speriamo di far girare parecchio e che è un po’ il nostro autoritratto. Il plurale non è majestatis.

A proposito del domani, quali sono i suoi progetti futuri? E i sogni realizzabili? Quelli irrealizzabili? Intendo come compositore, direttore d’orchestra e direttore artistico.
La lista è lunga ma posso dire pacificamente che artisticamente parlando sono tanti anni che faccio progetti e, uno alla volta, realizzo sogni. Quello di cui sento davvero la necessità e su cui nutro ancora poche speranze è di liberarmi dalla doppia condizione di organizzatore e artista. Più passa il tempo e meno sopporto questo doppio ruolo ma la strada è ancora in salita su questo versante.

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Questo articolo è stato originariamente pubblicato sull'edizione 2014 di Scripta Manent, l'annuario della Ripartizione Cultura Italiana della Provincia Autonoma di Bolzano.