Cultura | La recensione

Dada and more a Transart

A Transart, arte performativa dada, musica contemporanea e l'uso eterodosso di un luogo carico di simbologie. Riflessioni marginali su due eventi del festival.
The act of dada
Foto: Transart
  • Non c'è niente da capire: Dada può essere un gioco e può essere protesta, specchio, nonsense, teatro dell'assurdo e insieme veritiero, colpire nel segno le nostre debolezze, individuali e collettive. Nella mia, tutta personale, strategia di ritrovare nell'arte appigli per non soccombere, mi capita di preferirlo al realismo magico, per esempio, e non posso farci niente. Niente contro quest'altro linguaggio artistico per certi versi affascinante: a ciascuna la sua lente, attraverso cui decifrare il mondo, nella costante costruzione della realtà che le o gli è più consona. Ma è una faccenda del tutto personale. Altro con Dada. Dada, nel doppio evento di Transart tenutosi nella cornice della Fondazione Antonio Dalle Nogare e le sue collezioni di arte contemporanea, mi è più congeniale nel suo assoluto sottrarsi a logiche e interpretazioni estetiche e razionali. 

    Non è un momento felice altrimenti, per dilettarsi e fare dotte considerazioni sull’arte, sulla sua funzione e fruizione.  Io non mi sento così a mio agio di questi tempi, in platea ad ascoltare un concerto o a vedere uno spettacolo, a una mostra d’arte, oppure a danzare, che sia clubbing o swing è indifferente, con le guerre vicine in atto e le smisurate crudeltà che le accompagnano (vissute intensamente sui social, meno sui giornali e, per quel che mi riguarda, per niente in tv) e con certe derive preoccupanti nella democrazia di casa. Del resto l’inquietudine legata alla percezione di un castello di carte che crolla, trascinando via le vite di tanti esseri umani al pari delle mie presunte sicurezze e convinzioni, è una presenza costante, anche mentre faccio la spesa, tra la scansione del codice di un prodotto e l’altro alla cassa del supermercato.

  • Benvenuto Dada, allora

    Shuffle: Nella performance di Christian Marchay il Lagrein é una parte integrale. Foto: Tiberio Sorvillo

    In concreto, Andreas Fischer (basso) e Gareth Davis (clarinetto contrabbasso) in Shuffle di Christian Marchay, seduti a un tavolo allestito nella Black Box al pianoterra della Fondazione, propongono un gioco fatto di voce, gesti e suoni, intorno a un mazzo di carte da mescolare. Non manca la bottiglia di Lagrein sul tavolo, sorseggiato dagli interpreti rispettando i tempi della partitura. Il tutto alla fine ha il sapore della parodia di una partita di Watten tirolese, non particolarmente appassionante nonostante i virtuosismi e le acrobazie sperimentali dei due interpreti. Chi ha voglia d’altronde di identificarsi, senza qualche titubanza, nella spensieratezza irriverente dei due giocatori, considerate le premesse contingenti di cui sopra? Gli applausi finali e la partecipazione diretta degli spettatori comunque non mancano: per qualcuno sorridere di sé stesso resta una consolazione.

  • LemoDada: Il costume dell'artista d'origine giapponese con base a Vienna si ispira a uno indossato dal dadaista Hugo Ball, più noto per la sua „Karawane“. Foto: Tiberio Sorvillo

    Al primo piano, in una delle sale riservate alle collezioni della Fondazione, l’artista Akemi Takeya attende invece il pubblico bardata di un astruso mantello e cappello a cono di cartone, che ricalcano il costume cubista del poeta dadaista Hugo Ball in una foto del 1916. Munita di mascheramenti e di innumerevoli borse e sacchetti integrati nell’abbigliamento, colmi di svariati oggetti trasformati e trasformabili di volta in volta in requisiti scenici, l’artista al centro della sala si muove e pronuncia stralci di testi intercambiabili come da un copione. The Act of LemoDada è il titolo della sua performance, che ha a che fare con il limone. Dozzine di esemplari, gialli e rigorosamente bio, del frutto vitaminico, affiancati da altrettanti pupazzetti umani in legno, sono sparsi in cerchio attorno alla bizzarra figura dell’artista, sempre più fulcro di una galassia di personaggi, a cui Akemi Takeya da corpo e voce di volta in volta, nel tempo della performance. Nel suo vorticoso, personale Cabaret Voltaire compaiono 71 figure unite secondo precise coordinate e abbinate ciascuna a un interrogativo dada dell'artista. Come il corpo, anche la voce dell'artista pare liberarsi via via dalle maschere che la imbrigliano e si fa infine potente e vibrante, irresistibile.

    Nella sua follia, la performance dada ridimensiona l’arte, la sua pretesa di essere sostanza morale. Non è l'arte a dover essere morale, quello è compito che spetta a uomini e donne, sempre.

  • Dentro la morale

    Dentro la morale, quella feticcia, imposta dalla retorica monumentale di un regime, si svolge invece un altro evento di Transart. Ordine e Fragmente è un atto artistico che porta la cultura contemporanea, di cui il festival Transart si fa vetrina ogni anno, per la prima volta dentro al Monumento alla Vittoria, un luogo colmo di simbologia e di storia funeste, non solo per la città di Bolzano. La cripta del monumento è già adibita da un decennio a museo della storia recente, con il fulcro tra le due guerre mondiali. Con l’evento culturale proposto ora dal festival Transart avviene un ulteriore depotenziamento della retorica fascista, di cui l’architettura è custode.

  • Ordine e Fragmente: Cultura contemporanea in un ambiente insolito, l'opera di sperimentazione elettronica di Louis Andriessen del 1973, nella cripta del monumento di Piazza Vittoria. Foto: Tiberio Sorvillo

    Tre i brani di musica contemporanea di autori diversi che risuonano nello spazio sotterraneo del monumento, nelle due repliche dell’evento musicale, entrambe sold out. L’opera di sperimentazione elettronica ‘Il Duce’ for Tape del 1973 del compositore danese Louis Andriessen diventa una sorta di preludio alle altre due. Nei quindici minuti  della registrazione di Andriessen, un frammento di un discorso di Mussolini viene ripetutamente elaborato finché la voce del Duce è completamente distorta e diviene incomprensibile, per dissolversi infine nelle note famosissime del Sonnenaufgang da Also sprach Zarathustra di Richard Strauss. Un'introduzione che assume un valore liberatorio, purificatorio verrebbe da dire, per apprezzare poi appieno la bellezza della musica a seguire, ovvero il brano Struktur und Ordnung per basso (Andreas Fischer) e clarinetto contrabbasso (Gareth Davis) della compositrice contemporanea Iris Ter Schiphorst e Fragmente - Stille, an Diotima per quartetto d'archi di Luigi Nono, ed eseguito dal Minguet Quartett.

    Nella composizione Struktur und Ordnung dedicata dall'autrice all'amica e architetta May Kooreman che soffriva di Parkinson, l'ordine che soffoca la voce e uccide la libertà dell'individuo è la stessa malattia. Nel libretto la compositrice usa le parole dell'amica "So, order and control – I mean, that's really an important one. And it has to do with being able to speak up, or not being able to speak up. And that's what I wanted to show: the immensity of it all. I’m not the architect anymore that I used to be". [Ordine e controllo: questo è un aspetto molto importante. E ha a che fare con la possibilità di parlare, o di non parlare. Ed è questo che volevo mostrare: l'immensità di tutto. Non sono più l'architetto che ero prima] Struggente e lucida al contempo l'interpretazione della voce di Andreas Fischer e dello strumento di Gareth Davis al clarinetto contrabbasso, che si scontrano con un'invisibile barriera e diventano suoni strozzati e pur dolcissimi. 

    Nell'ultimo brano eseguito dal Minguet Quartett, le pause e i silenzi fanno parte della partitura di Luigi Nono e così i suoi frammenti lasciano spaziare in un tempo ben più ampio, quasi a toccare l'infinito.