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Società | Avvenne domani

Zò acqua....

Le donne di Goro e i "rovigotti" trascinati a Bolzano da un'alluvione di sessantacinque anni fa.

È un triste sberleffo della storia quello che ci propone le notizie e le immagini delle barricate degli abitanti di Goro contro l'arrivo in paese di una dozzina di donne profughe da paesi lontani, proprio mentre il calendario ci ricorda il  sessantacinquesimo anniversario di una tragedia immane, che toccò quei luoghi e quella gente.

Era il 14 novembre del 1951. Dopo due settimane di piogge ininterrotte su tutta la pianura, dal Piemonte al mare, il Po ruppe gli argini in vari punti e l'intero Polesine, da Chioggia a Ferrara, finì sott'acqua. Quarantamila ettari completamente sommersi. I campi, ma anche le case, gli edifici pubblici, le strade. Ci furono complessivamente 91 morti, 84 dei quali viaggiavano un camion che trasportava un gruppo di sfollati verso un'incerta salvezza e che finì  nelle acque limacciose del fiume.

In duecentomila furono costretti ad abbandonare le proprie case, in tutta fretta, senza poter portare con sé quasi nulla. Era, per la gran parte, gente poverissima che conduceva da sempre una vita grama. Nel giro di qualche ora venne privata anche di quel poco che aveva.

A quei tempi il concetto di protezione civile come lo intendiamo oggi era assolutamente sconosciuto. L'Italia che ancora stentava a riprendersi dalle distruzioni della guerra, mise in campo il poco che poteva: l'esercito per gli interventi di soccorso e il Genio civile per l'inutile tentativo di limitare i danni prodotti dalla furia del grande fiume.

Dei duecentomila che se ne andarono, molti non fecero più ritorno nel Polesine. La popolazione della zona colpita dal catastrofico evento diminuì, ci dicono le statistiche demografiche, di ben centomila unità nel giro di un paio d'anni.

Andarono altrove, portando con sé, molto spesso, solo i vestiti bagnati che avevano addosso. Andarono dove speravano di poter contare sull'aiuto di qualche amico o di qualche parente che aveva intrapreso lo stesso viaggio anni prima. Andarono in Italia, accolti ovunque, in specie nei primi giorni, con calde manifestazioni di affetto. Andarono in Europa, seguendo il cammino che in quegli anni segnava la vita di milioni di italiani alla ricerca oltre confine di un futuro meno segnato dalla fame e dalla miseria.

Arrivarono anche a Bolzano. Seguivano le tracce di parenti e compaesani che erano giunti nel capoluogo altoatesino a partire dagli anni 30, andando a costituire una robusta comunità.

C'è una frase, cinica e brutale, in dialetto Trentino, che ci ricorda quei giorni e quegli avvenimenti: "zo' acqua e su rovigotti" . Giù acqua, dal cielo, a segnare il destino di una terra, il Polesine, che dall'acqua è circondato e su i rovigotti, termine spregiativo per chi giustamente preferisce l'appellativo di rodigini.

È solo una frase, ma è rimasta impressa nella memoria collettiva dei bolzanini di una certa età, a testimonianza del fatto che anche allora non tutto fu facile, non tutto avvenne senza contrasti e senza problemi. Quella degli immigrati polesani del 1951 fu forse una delle ultime ondate di un certo rilievo di italiani arrivati in Alto Adige in cerca di casa e lavoro. Un'immigrazione che i più recenti studi storici dimostrano assai meno rilevante di quanto la propaganda sudtirolese del tempo, imperniata sul concetto di "Todesmarsch" della popolazione tedesca, abbia voluto far credere.

Arrivavano, è vero, e si adattavano a vivere nelle baraccopoli nate nel dopoguerra alla periferia sud di Bolzano. Poi trovavano un lavoro e riuscivano conquistare uno degli alloggi pubblici che venivano costruiti in quegli anni. È il meccanismo contro il quale, nel 1957 a Castelfirmiano, si scaglia Silvius Magnago che chiede, in nome del diritto della minoranza alla sopravvivenza, di fermare questa ruota, di introdurre, accanto al criterio del bisogno, anche quello dell'appartenenza etnica. Così, come sappiamo, avvenne, ma non fu un percorso politico agevole.

C'è qualcosa di tragico e paradossale nel fatto che oggi molti di coloro che, a Bolzano come del resto altrove, plaudono a chi sventola sulle barricate di Goro il vessillo sul quale è scritto "prima gli italiani" siano gli stessi (o i loro fratelli minori) che sino a vent'anni fa, in Alto Adige, inveivano con veemenza contro le classifiche per gruppo etnico dell'assegnazione degli alloggi o dei contributi sociali. Prima il bisogno, dicevano, senza riguardo alla lingua o al colore dei capelli.

Le donne respinte a Goro, invece, hanno gli stessi occhi disperati e stanchi dei polesani sbarcati a Bolzano e altrove in un gelido novembre di sessantacinque anni fa.

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F. T. Dom, 10/30/2016 - 09:54

Sono rimasto senza parole, quando ho sentito quello che è successo a Goro. Ma quelli di Goro non
si ricordano come li abbiamo accolti, dopo la loro tragedia? A casa mi abbiamo ospitato un ragazzo per diverso tempo, finchè potè ritornare nel suo paese. Ma non si vergognano di cacciare persone
in difficoltà?

Dom, 10/30/2016 - 09:54 Collegamento permanente