La tecnologia aumenta lo stress?
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E' entrata nella vita di tutti, portandosi con sè innumerevoli vantaggi. La tecnologia, ora al centro di uno studio dell'Istituto Promozione Lavoratori (IPL), però può far aumentare lo stress, anche sul luogo di lavoro. Il fenomeno prende il nome di "tecnostress". Lo studio dell’ente provinciale IPL ha tenuto in considerazione le ricadute negative della digitalizzazione sullo stato psicofisico degli individui, tra le quali il senso di impotenza sul controllo del tempo e dello spazio personale, sovraccarico di informazioni provenienti da fonti diverse e riduzione della fiducia e del comfort nell’uso delle tecnologie digitali. Il sondaggio telefonico interessa 500 lavoratori e lavoratrici altoatesini ed è rappresentativo per l’Alto Adige. Le interviste dell’edizione autunnale del Barometro IPL sono state condotte nel periodo dal 1° al 20 settembre 2024. Il Direttore IPL Stefan Perini mette in evidenza un apparente paradosso: “La tecnologia migliora la qualità della vita, ma allo stesso tempo stressa”. La ricerca sugli effetti del tecnostress è ancora piuttosto giovane e dunque anche l’IPL ha voluto occuparsi della raccolta dati in questo campo, inserendo nell’edizione autunnale del proprio Barometro alcuni quesiti volti a indagare pregi e difetti dell’uso della tecnologia, nonché gli eventuali effetti sullo stato di salute dei lavoratori.
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I dati
Dal Barometro IPL emerge che quasi l’80% dei lavoratori intervistati usufruisce di tecnologie digitali per svago personale per 1 o 2 ore al giorno. In particolare, il 44% entra in contatto con servizi digitali per un’ora al giorno, il 34% per 2 ore e un altro 22% per più di due ore. Diversa è la situazione sul posto di lavoro, dove certamente l’utilizzo è strettamente legato al tipo di mansione svolta. Qui a livello aggregato, non distinguendo dunque per attività, il 17% degli intervistati non fa uso di tecnologie digitali mentre una percentuale di poco maggiore del 30% utilizza servizi digitali da 1 a 2 ore. Un 15% dichiara infine di utilizzare procedure digitali per 8 ore al giorno e dunque per un consistenze gruppo di lavoratori tale attività può avere certamente conseguenze rilevanti sia nel bene che nel male, soprattutto tenendo conto che anche nella vita privata l’uso della tecnologia è sempre più necessario. Per tali lavoratori si può infatti arrivare a ipotizzare un utilizzo che raggiunga anche le 10 ore giornaliere.
In generale le competenze sembrano buone poiché il 49% non ha alcun problema nel padroneggiare gli strumenti digitali, mentre il 30% afferma di averne solo un po’. “È importante che, soprattutto tra i giovani, vi sia un’adeguata alfabetizzazione informatica su vari livelli, perciò non solo finalizzata allo svago” osserva la ricercatrice Maria Elena Iarossi.
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“Anche se le tecnologie sono ben tollerate e si rivelano utili - dice il presidente IPL Andreas Dorigoni - non bisogna sottovalutare gli effetti del tecnostress ed è quindi importante prendere consapevolezza degli effetti negativi oltre che positivi di queste innovazioni. L’impatto delle tecnologie digitali sul benessere lavorativo e sulle modalità di lavoro ricopre un’importanza strategica, perciò sarà importante monitorare gli effetti della transizione digitale anche sulla salute delle persone”.
L’impiego delle nuove tecnologie costituisce o meno fonte di stress? A questa domanda il 13% degli intervistati ha risposto “molto” e il 41% “abbastanza”. Ciò vuol dire che per più della metà dei lavoratori dipendenti l’impatto generale in termini di stress è rilevante. Tuttavia, nonostante questo risultato, 8 persone su 10 parlano di un certo miglioramento della qualità della vita.
Il 30% degli intervistati ritiene che a causa dell’uso prolungato della tecnologia digitale le prestazioni lavorative risultano in generale “molto” o “abbastanza” peggiorate, il 36% non ravvisa alcun tipo di problema sul lavoro, mentre il 34% riconosce un certo peggioramento delle prestazioni anche se solo limitatamente. Riguardo ai danni alla salute la posizione degli intervistati è invece più critica: solo il 18% ritiene che l’uso prolungato non arrechi alcun danno, mentre la rimanente parte del campione ritiene che vi siano danni alla salute in misura variabile.