Cultura | Salto Weekend

A tu per tu con Binta Diaw

L'artista di origini italo-senegalesi è l’Artist in Residence di Lungomare (2021): “A definire le forme del mio lavoro site-specific per Bolzano è stato Alexander Langer"
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Foto: Binta Diaw

Ho incontrato Binta Diaw (1995) all’associazione culturale bolzanina Lungomare, dove è impegnata in una residenza che porterà alla creazione di un lavoro site-specific che sarà esposto a fine settembre. Come artista, tra i suoi punti di partenza ci sono lo studio di fenomeni sociali come le migrazioni e il rapporto del corpo con la natura e la complessità della sua identità, questioni, quest’ultime, che la riguardano da vicino.
Lo sguardo con cui Diaw si è approcciata alla realtà altoatesina per dare forma a un progetto che rifletta sul territorio e sulla storia dei luoghi esce da quel bipolarismo che fa del Sudtirolo terra – talvolta contesa – di italiani e tedeschi: il suo venire da un’altra regione italiana fa sì che non sia coinvolta in questa divisione; il suo posizionamento fa sì che la sensibilità della sua ricerca si soffermi su altre comunità. Binta arriva a Bolzano non conoscendo le implicazioni storico-politiche che segnano ancora l’Alto Adige e, impegnata a studiare il tessuto sociale della provincia, scopre Alexander Langer, il cui pensiero rappresenta l’ispirazione dell’intero progetto. Dopo la chiacchierata con Binta, dopo aver conosciuto il suo approccio all’arte e dopo aver scoperto la sua idea artistica contestualizzata nella realtà di Bolzano, mi è parso chiaro il legame che unisce Langer a Diaw: entrambi sono tesi a interrogarsi sull’appartenenza comunitaria e sul rapporto tra culture diverse.
Prima di dare spazio alle parole di Binta, voglio ricordare quelle usate da Alexander nei discorsi sui gruppi etnici e le minoranze. A me sono servite come didascalie del progetto di Binta: “L’esperienza di un gruppo interetnico, o se volete del gruppo pilota che accetta di sperimentare su di sé le possibilità e i limiti, i problemi della convivenza interetnica, per me rimane una cosa assolutamente determinante”, e ancora: “Dalle minoranze etniche può scaturire un rilevante impulso a postulare una diversa forma di ‘progresso’, ‘sviluppo’, ‘modernizzazione’ segnata da una minore uniformazione rispetto al ‘centro’ e da un accresciuto valore intrinseco delle ‘periferie’ (fino a giungere alla messa in discussione di tale rapporto), nonché da una dimensione entro la quale ‘altro’ non significhi ‘inferiore’”.


salto.bz: Binta, sei impegnata in una residenza artistica che ti chiede di creare un progetto legato al territorio. Come hai fatto a prendere confidenza con la realtà di Bolzano?

Binta Diaw: Il contesto in cui mi sono immersa mi era assolutamente sconosciuto. Per iniziare a conoscerlo ho incontrato delle persone che mi hanno aiutata a capire le dinamiche del territorio. Poi ho visitato la città rimanendo sorpresa dalla violenza di alcuni suoi monumenti di memoria fascista e nazionalista. Ma l’incontro fondamentale è stato quello con il pensiero di Alexander Lager che ancora non conoscevo.

Cosa hai scoperto girando per le strade di Bolzano?

Visitando la città ho avuto modo di constatare la presenza di numerose comunità marginalizzate. Quando si pensa all’Alto Adige vengono in mente gli italiani e i tedeschi, ma a Bolzano sono numerose le comunità spesso invisibilizzate.

Invece la lettura dei testi di Langer a cosa ti è servita?

È stata il vero punto di partenza. Quando sono arrivata a Lungomare, ho ricevuto del materiale da consultare tra cui degli scritti di Langer. Leggendoli ho iniziato a buttare giù i primi appunti, a dare forma alle prime idee. Mi sono concentrata su alcune parole fondamentali per Langer e ho pensato: queste saranno la base del mio abecedario.

Quindi il tuo progetto è la creazione di un abecedario?

Il mio progetto diventerà anche una sorta di libro che raccoglie le esperienze collettive fatte qui a Bolzano. Il progetto prevede tre pratiche collettive, dove si lavora insieme. Ogni incontro si sviluppa a partire da alcune parole prescelte.

Puoi farmi un esempio?

Il 19 giugno c’è stato il primo incontro. Ho fissato un appuntamento con alcune donne contattate in precedenza. Tutte le partecipanti erano donne con un background migratorio. In questo caso le parole su cui abbiamo ragionato erano: paure, schierarsi, corpo estraneo, mescolanza.
Dopo aver discusso sul significato di questi termini, abbiamo trascorso l’intero pomeriggio a creare un patchwork di grandi dimensioni, 6 m x 3 m. Si è creato quello che io amo definire un brave-space: attraverso un lavoro intimo e non legato a un territorio specifico – il cucito è una pratica rituale diffusa ovunque – otto donne si sono confrontate su varie questioni creando una situazione di incontro altrimenti difficile da immaginare. Pensa che mi hanno chiesto di creare un gruppo WhatsApp per rimanere in contatto tra di loro!

In che modo è affrontato il significato delle parole che scegli?

Prima di incontrarci, invio alle e ai partecipanti un questionario che indaga sul significato delle parole chiave. Invito le persone a rispondere non solo con le parole, ma anche attraverso immagini o audio. Dopo aver raccolto il contributo individuale, si riaffronta in una dimensione collettiva la portata dei termini selezionati. Sia le risposte, sia le discussioni troveranno spazio in quella sorta di abecedario finale.

Quanti di questi incontri sono previsti?

Tre. Dopo quello di giugno, nel mese di luglio ha avuto luogo la sessione denominata “We are Potluck”, dedicata al cibo. Ogni partecipante, in questo caso donne e uomini di diversa provenienza, ha portato un ingrediente a cui è legato. In una sorta di round-table discussion si è presentato l’ingrediente scelto e poi si è cucinato insieme la cena. In occasione di quest’appuntamento le parole scelte sono state: assimilazione, etnico, (diritto di) Heimat, natura, mescolanza.
Per quanto riguarda il terzo incontro so solo che i protagonisti saranno gli adolescenti di seconda generazione.

Come si traducono in arte questi incontri?

Il patchwork creato nel primo incontro rappresenta l’opera che verrà accompagnata da una traccia sonora connessa alle quattro ore di lavoro collettivo. Il secondo incontro, invece, diventerà un’opera visiva.


Usciamo dal progetto per Lungomare e parliamo del tuo modo di fare arte. In un’intervista su nns magazine hai dichiarato: “Essere parte di una città, una nazione o una comunità implica assumersi delle responsabilità. Io cerco di assumermi delle responsabilità anche attraverso la mia arte”.
Che cos’è per te la responsabilità?

Mettersi in discussione. Attraverso la mia arte mi metto costantemente in discussione e faccio di ogni situazione motivo d’esperienza.

Pensi che il tuo lavoro abbia una valenza politica?

La mia arte non è politica. Io cerco di rivendicare alcune questioni per me fondamentali, ma la mia spinta più che politica è vitale. Non penso alle implicazioni politiche quando affronto temi come la migrazione: per me si tratta di qualcosa di istintuale. Un po’ come quando qualcuno ti colpisce e in automatico cerchi di proteggerti. Se assisti a determinate situazioni, ti senti costretta a reagire in qualche modo. La mia reazione prende forma attraverso l’arte. Detto ciò, mi sta stretta l’etichetta di artista politica, o artista militante: io non sono militante.

Le tue installazioni riflettono anche sul rapporto con il corpo e la complessità della sua identità. Che ruolo ha il corpo nelle opere che crei?

Raramente utilizzo il mio corpo come parte dell’opera, anche se il corpo è il punto di partenza della mia intera pratica. Le esperienze che faccio e che traduco in arte passano soprattutto attraverso la teoria. Eppure tutte le esperienze hanno a che fare con il corpo; è uno spazio che capta le varie sensazioni: io esperisco attraverso il corpo.
Io uso i capelli come estensione del corpo. Per le comunità africane e afrodiasporiche i capelli hanno un valore identitario, simbolico. I capelli, spesso motivo di discussione, sono da me utilizzati come strumento di rivendicazione: attualmente in mostra alla Biennale del Mediterraneo a San Marino, ma concepita in precedenza per una mostra della Fondazione Sandretto, c’è la mia installazione “Uati’s Wisdom” che è costituita da lunghe trecce nere. I capelli sono stati soggetti a costanti processi di colonizzazione che hanno fatto sì che anche le acconciature dovessero sottostare a norme estetiche eurocentriche. Il mio lavoro vuole rompere queste norme presentando i capelli come strumento di lotta.

Secondo te, c’è un motivo se sono soprattutto le artiste donne a mettere il proprio corpo al centro della loro arte? Penso ad Ana Mendieta o a Regina José Galindo il cui corpo diventa una tela nuda anche da tagliare.

Credo proprio di sì. Da secoli il corpo delle donne è al centro di dinamiche patriarcali ed è condizionato da un’estetica dominante. Spesso per le donne interrogarsi sul rapporto con il corpo è qualcosa di obbligato dal contesto prima ancora che voluto. In Mendieta così come in Galindo il corpo è usato per parlare alle persone.

Quando penso al rapporto tra arte e corpo, mi interrogo sul rischio di sessualizzare i corpi, soprattutto quelli femminili. È un rischio reale?

Assolutamente. In uno studio che avevo condotto sul rapporto tra fotografo e modella legato all’ambiente colonialista, mi sono accorta di come l’interesse del fotografo andasse oltre la persona, azzerando l’identità umana per dare spazio all’oggettificazione sessuale dei corpi neri. Se sovrapponiamo l’obiettivo con lo sguardo del fotografo bianco, si capisce come il colonialismo sia andato oltre i luoghi e abbia invaso i corpi.

Colonialismo e maschilismo fanno rima con capitalismo. Oggi, le artiste e gli artisti all’avanguardia stanno sulle copertine delle riviste dialogando con un sistema capitalista che è riuscito a far sì che i luoghi artistici si adeguino ai principi aziendali.
Secondo te, le leggi di mercato sono un rischio per l’arte?

Sì, l’arte business è un pericolo perché tende a meccanizzare le pratiche artistiche. Se si entra nel sistema del mercato, talvolta si è costrette a scendere a compromessi, soprattutto se si lavora in contesti privati. A me piacerebbe lavorare nel pubblico, sia perché il rischio di essere schiacciate dalle regole di mercato snaturando il proprio lavoro è minore, sia perché credo che le istituzioni pubbliche permettano una maggiore fruizione dell’arte. Il mondo dell’arte è elitario: non è solo l’artista ad avere dei privilegi, ma anche chi frequenta le gallerie. Benché sia consapevole del mio privilegio di poter fare quello che mi piace, credo che l’ambiente dei musei sia differente, cioè più libero da alcune logiche di business.
Se penso al sistema dell’arte contemporanea, credo che una questione delicata, oltre a quella legata alle regole di mercato, sia anche il persistente gioco di potere, che regola chi è incluso o escluso da un determinato progetto o spazio o addirittura la tendenza a creare spazi o momenti di dialogo su tematiche che non toccano minimamente gli artisti e le artiste chiamat* in causa, provocando false narrazioni e riflessioni poco critiche. Per questo motivo, trovo che sia importante contrastare il disequilibrio di genere che tuttora prevale nell’arte, dando spazio, visibilità e sostegno ad artist* donne e madri, queer e a migrant* di discendenza non europea.