Don Milani inorridirebbe
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Egr. Direttore Faustini, vorrei, tramite il suo giornale, rivolgermi al prof. Carlo Bertorelle:
Gentile prof. Bertorelle, mi permetta qualche commento al suo scritto “Don Milani, una lezione che resta” (14/12). “Ai tempi di don Milani – lei scrive – lasciando intendere quanto decisiva sia stata la sua influenza sull’istruzione del nostro paese – “la scuola bocciava ed emarginava veramente; esisteva davvero la professoressa un po’ ottusa che dalla cattedra impartiva nozioni e visioni borghesi, riproducendo la superiorità dei ricchi e la sottomissione dei poveri”. Ora, che la scuola, come del resto ogni istituzione pubblica, perpetui i valori della società in cui opera è cosa ovvia oltre che legittima; suo compito è promuovere il progresso materiale e spirituale dei cittadini e su questo criterio va giudicata, ma se la si vuole utilizzare per modificare i rapporti economici di produzione si corre un serio rischio: se il progetto rivoluzionario fallisce quello che resta sono macerie. “Oggi – lei afferma, a prova della sua supposizione – la stratificazione sociale è assai più fluida, i programmi insistono per garantire il successo formativo a tutti, la scuola è diventata in genere accogliente e l’autoritarismo è ormai merce rara; i docenti sono quasi degli amici per i ragazzi, venendo a svolgere un ruolo di supplenza delle famiglie”.
Un bel quadretto ha dipinto professore, ma, la prego, non ne imputi a don Milani la responsabilità: se lo vedesse ne resterebbe inorridito! Lungi da lui l’idea che tutti siano meritevoli di promozioni e diploma e contro l’accidia giovanile non lesinava certo: “da noi – scriveva – nei casi estremi si adopera anche la frusta”. Il suo obiettivo di giustizia non era la fluidificazione delle classi sociali (“ci sarà sempre – affermava – l’ingegnere e l’operaio, a questo non c’è rimedio”), ma – come prescrive la Costituzione – la rimozione degli ostacoli di ordine socio-culturale che impediscono pari condizioni di dignità sociale (“non si tratta – chiariva – di fare di ogni operaio un ingegnere, ma solo di far sì che l’essere ingegnere non implichi automaticamente anche l’essere più uomo”. Come realizzarlo? C’è un solo modo – scriveva – perché i “poveri siano fatti uguali ai ricchi”: dar loro la piena padronanza della lingua: “l’operaio – scriveva – sa quello che vuole quanto l’avvocato o l’ingegnere e forse meglio; la sua condizione di inferiorità rispetto a quei due non dipende dalla mancanza di idee e di cognizione, ma dall’incapacità di esprimersi e di intendere il pensiero altrui”. È questa idea che ispirò i suoi ammiratori riformisti a modellare una scuola dell’obbligo tutta intenta a fornire ai “poveri” i mezzi appropriati (le “Dieci tesi del Giscel sulla pedagogia linguistica democratica” ne sono l’esempio più significativo) per dar loro la capacità di utilizzare efficacemente la lingua così da diventare – per usare le parole dell’ispiratore – “dilettanti in tutto e specialisti solo nell’arte del parlare”. Va da sé che con queste finalità formative la sua massima “la scuola dell’obbligo non può bocciare” aveva un senso.
Fu quando, incuranti del suo avvertimento “alle superiori bocciate pure! si costruiscono cittadini specializzati al servizio degli altri, si vogliono sicuri”, i suoi incauti “ammiratori” iniziarono (non so se al fine di accrescere l’uguaglianza o per puro spirito rivoluzionario), ad adottare criteri “democratici” di insegnamento (e non solo per l’italiano) anche alle superiori, che la situazione precipitò: titoli di studio inflazionati; ascensore sociale con le porte divelte; allocazione di mestieri e professioni lasciata al caso. Non so se valeva la pena produrre tutte queste macerie per rammollire la classe borghese a tutto vantaggio di quella capitalistica. Oggi, l’uguaglianza alla don Milani si è realizzata al negativo: i “poveri” non hanno più motivo di vergognarsi, la conoscenza linguistica dei “ricchi” si è livellata alla loro. Don Milani mai avrebbe ceduto a creare uguaglianza abbassando l’asticella: “non mi abbasso io al giovane, ma innalzo il giovane a me, non mi ammalo io per lui della sua malattia, ma risano lui alla mia salute, alla mia normalità di homo sapiens”.
Mi fa specie professore, coi tempi che corrono, dopo i tanti ammonimenti di psicologi ed educatori ad usare fermezza nell’educazione, che lei ritenga un bene che i docenti, dismessa ogni autorità, si relazionino con gli studenti al pari di amici.
Nel salutarla, consiglio a lei e ai tanti ammiratori di questa scuola la lettura di un recente libro “L’equivoco don Milani” di Scotto di Luzio (ed. Einaudi): anche i miti vanno ridimensionati!