Society | GASTKOMMENTAR

Ben arrivato, indispensabile Schwa!

Lo "scevà" o semplicemente ə è una lettera dell'alfabeto fonetico che permette di rivolgersi a una moltitudine mista. Perché non usarla?
schwa
Foto: web

Ebbene sì, l’ho fatto: ho usato la piccola e rovesciata, cioè il simbolo fonetico schwa nel Gastkommentar pubblicato la settimana scorsa su salto.bz. Per la prima volta in un pezzo scritto e pubblicato, ma lo uso da diversi mesi anche nel parlato, sia in discorsi pubblici che in dialoghi privati. Mi piace. In modo scorrevole riesco a indirizzarmi davvero a tutte le persone alle quali mi rivolgo e coinvolgerle. Molto utile anche in famiglia: facilita la conversazione con due figli e una figlia (soprattutto l’adolescente così non può più sentirsi esonerata da eventuali richieste, perché formulate con il maschile sovraesteso).

Per chi ancora non lo conoscesse, lo schwa, scevà o semplicemente ə è una lettera dell’alfabeto fonetico che nella sua pronuncia si pone fra E e A. In Italia è particolarmente diffusa nella lingua napoletana e quella piemontese, come anche in altri dialetti. Risposta della sociolinguista Vera Gheno a una persona che ha espresso il suo disagio nell’uso del maschile e del femminile a cui l’italiano la costringeva, lo schwa permette di rivolgersi a una moltitudine mista e indefinita. Ovvero: sostituisce il maschile sovraesteso con una forma che permette l’identificazione di molte altre persone oltre appunto quelle di genere maschile.

Per essere una lettera così piccola e dal suono piuttosto indefinito, per essere una sperimentazione linguistica che include anziché togliere, sono sorprendenti le enormi resistenze e critiche tra linguistə reali e da tastiera. Fa tanta paura la perdita del privilegio di continuare a parlare (e scrivere) nel proprio genere come sovraesteso, che per una volta progressistə e tradizionalistə, destra e sinistra, Guelfi e Ghibellini fanno tuttə fronte comune. O forse non è solo questa volta, piuttosto la stessa dinamica di sempre quando andiamo ad analizzare la piramide del potere di una società patriarcale: in cima pochi uomini bianchi, cisgender, etero, abili e benestanti che decidono della vita delle donne, del lavoro di cura che erogano, della loro capacità riproduttiva e, tra le tante cose, anche di come si devono identificare nel linguaggio. A seguire poi quegli uomini forse un pochino meno benestanti o abili ma pur sempre tronfi della loro superiorità nello spiegare che non c’è bisogno di un linguaggio inclusivo, che lo schwa non si può vedere/sentire/capire/scrivere. Pronti a sminuire la necessità di un linguaggio inclusivo “perché ci sono cose più importanti”, pronti a fermarsi alla forma senza badare al contenuto, pronti a urlare alla morte della lingua italiana mentre cliccano "un like su un post nei social", pronti a “evitiamo di parlarne” perché potrebbe distogliere l’attenzione dalla lotta per le pari opportunità (what?).

Ma il solo fatto che l’utilizzo o meno di questa minuscola letterina dalle implicazioni enormi comporta un polverone di dibattito, ne mostra l’indispensabilità. E così, mentre continuo a sperimentare con l’italiano per trovare un modo di espressione che mi faccia sentire a mio agio e in sintonia con le persone che mi circondano, vi saluto tuttə con Giulia Blasi: “Finché non vedi il patriarcato, il patriarcato sei tu”.