A Sciangai quello era il "nostro" muro
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Bolzano: 262 metri sul livello del mare, due fiumi e mezzo (il mezzo è un torrente, il Talvera) racchiusa in una conca. L’estate è un forno. Ma a noi non interessava.
Noi avevamo il nostro muro.
Malta vecchia e grigia. Due metri e mezzo circa d’altezza. Lungo una cinquantina. Fino ai meleti. E poi, lassù, Castel Firmiano. E la discarica. Il muro, il nostro muro, era brutto. E pure parecchio. Angolo via Resia, via Ortles. Il quartiere era quello che i bolzanini per bene chiamavano Sciangai. Scritto proprio così. Per estensione, chi viveva a Sciangai era uno sciangaiolo. Non era bello essere sciangaiolo. Significava essere un «walscher», un «italiano» (lo scontro etnico, risse ai bar, camionette dei carabinieri ovunque e bombe di Ein Tirol) e per di più, della peggior specie. Tossico, ladro, rissaiolo, volgare e anche un po’ stronzo. Ops. Riassunto: se ti danno dello sciangaiolo, tu tiragli un pugno. Per il sottoscritto vigeva un comma: siccome hai gli occhiali, tirane due. Per sicurezza. Però, per noi era un vanto essere uno sciangaoiolo. Era un’identità tutta nostra. Come l’Hockey Club Bolzano. O il nostro muro.
Ci giocavamo a hockey su asfalto e se non sapete cos’è significa che siete nati nel quartiere sbagliato e vi compatisco. Hockey su asfalto: pratica autolesionistica atta a dimostrare la superiorità dello spirito sulla carne (e a offrire lavoro al reparto Ortopedico del San Maurizio). Occorrente: stecche da hockey tagliate al manico (per un lavoro fatto bene, elemosinare un minuto al falegname di via Similaun, al Bivio), nastro adesivo per migliorare la presa, pallina da tennis (punto d’orgoglio: mai spendere una lira per comprarle, bisognava sgraffignarle ai circoli del tennis dei quartieri alti), strada asfaltata poco trafficata offerta dal Comune di Bolzano e un muro da usare come portiere, porta, arbitro e coach. Numero di giocatori: più si è meglio è. Lacrime versate: zero. Non era gioco da mammolette l’hockey su asfalto. Richiedeva sportellate in abbondanza, riflessi, vocabolario di insulti ben fornito e indifferenza nei confronti degli sguardi dei vecchi. Che facevano paura.
Non scherzo.
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L'autore
Il racconto di Luca D'andrea è apparso per la prima volta nell'inserto estivo de LA STAMPA nell'agosto 2017. Lo riproponiamo nell'ambito del "momento revival" su Sciangai.
Luca D'Andrea (1979), bolzanino doc, ha scritto libri di grande successo. Nel 2016 il romanzo thriller La sostanza del male è divenuto un caso editoriale pubblicato in più di quarantadue paesi. Con la seconda opera, Lissy, ha vinto il Premio Scerbanenco 2017. Nel 2022 ha pubblicato il romanzo Il girotondo delle iene ispirandosi alla vera storia di Marco Bergamo, il "mostro" di Bolzano.
Fumavano MS una dietro l’altra e siccome il nostro era un quartiere di «walscher» e i «walscher» arrivavano da tutta Italia potevano insegnarti parolacce in tutti i dialetti dello Stivale. Lo facevano volentieri. Per loro non eravamo probabili tossici o futuri assassini. Ci volevano bene. Tranne quando giocavamo a hockey su asfalto. Usando quel muro. Quello scuro, grigio, tozzo, brutto.
Il nostro muro.
I loro occhi cambiavano. E facevano paura. Ma siccome eravamo ragazzini a nessuno importava. A nessuno, tranne a me. Non perché fossi diverso dagli altri, anzi (se porti gli occhiali mena per primo e mena due volte, se giri tutto il giorno con un libro sottobraccio preparati al peggio) ma perché allora come oggi avevo la tendenza a farmi delle domande e a non tenerle per me.
«È il muro. Non voi. Quel muro. E le case. Ce le hanno costruite dentro. Sopra. È una vergogna».
Il nostro muro?
La casa in cui vivevo?
«Era il muro del campo. Lì c’era il campo. Quello dei nazisti. Il campo l’hanno fatto saltare. Si vergognavano. Ma il muro l’hanno lasciato».
Mi raccontò di come Sciangai alla fondazione si chiamasse Rione Dux, e di come nel 1944 le SS costruirono il Dulag Bozen. E fu il giorno d’agosto più freddo che io ricordi. Il gelo era quello dei nomi degli aguzzini, sputati come bestemmie.
«Fa strano vedervi giocare lì, capisci?».
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Capivo.
Ma quello era il nostro muro.
Non di Misha Seifert, di Wilhelm Harster, di Karl Titho o di Otto Stein.
Era nostro.
Avrei voluto far capire a quel vecchio che quel muro ci rendeva speciali, magici, immortali. Ma ero solo un ragazzino con gli occhiali. E per di più sciangaiolo. Ci volle un secondo perché il magone se ne andasse. Ancora meno perché salutassi (mia madre non aveva allevato un selvaggio) e tornassi all’interminabile partita di hockey su asfalto che era la nostra estate. All’ombra del muro.
Che era nostro. E soltanto nostro.
Ma...io abitavo in un…
Ma...io abitavo in un quartiere "bene" di Bolzano con quasi tutti abitanti italiani e nessuno chiamava "sciangaroli"gli abitanti delle semirurali, solo gli abitanti delle semirurali chiamavano sé stessi sciangaroli e anche con compiacimento. Io invidiavo questo senso di appartenenza al quartiere e mi piaceva moltissimo girare in bicicletta tra quelle strade dove c'erano cortili e orti ovunque.Le bombe di "ein Tirol" le abbiamo avute proprio sotto casa anche noi con tutto il resto. A me dispiace molto che questo quartiere sia andato distrutto come tante cose nel resto della città a cui eravamo affezionati. Sul campo di concentramento c'è ancora tanto da raccontare, è stato troppo lungo dimenticato. Complimenti anzi per "Il girotondo delle iene", mi è piaciuto molto. Forse sarebbe stato un bene se tutta la comunità di Bolzano si fosse sentita più unita e solidale, un' occasione mancata.
Se posso aggiungere il (o la) Talvera non è proprio un torrente, in tempi antichi era addirittura in parte navigabile. Purtroppo non teniamo presenti alcuni quartieri, come quelli sotto castel Roncolo, antica zona produttiva e artigianale che attingeva appunto dal Talvera, quindi altra vecchia"Schangai" .
Un quartiere "sbagliato" e "da compatire", dunque.