Di Puppo racconta la sua Sciangai
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Possono delle storie di quartiere contribuire a gettare le fondamenta di una comunità? Secondo gli abitanti di Sciangai, il rione popolare bolzanino, sì. Perr questo un gruppo di amici ha deciso di organizzare “Amarcord Sciangai, memoria e cultura”, evento in programma il 18 novembre in via del Ronco. In occasione di questa rievocazione abbiamo voluto intervistare Michele Di Puppo, ex vicepresidente della Giunta provinciale e sciangaiolo di origine, come gli piace definirsi.
SALTO: Come è nato l’evento Amarcord Sciangai ?
Michele Di Puppo: L’evento è stato creato da alcuni amici che portano nel cuore la storia del quartiere Sciangai. Chi è nato in questo quartiere, come me, avverte subito se ha a che fare con qualcuno di Sciangai perché c’è una consonanza che può essere spiegata bene con la canzone di Paolo Conte, Genova per noi: “Con quella faccia un po’ così, quell'espressione un po’ così, che abbiamo noi”. In effetti ci si riconosce senza conoscere il nome dell’altro. La canzone prosegue con “parenti siamo un po' di quella gente che c’è là che come noi e forse un po’ selvatica” e sono parole che si adattano perfettamente allo spirito di Sciangai. I miei amici hanno pensato di riaccendere questo spirito, essendo noi l’ultima generazione che ne può parlare, dato che oggi Sciangai è stata distrutta. Io ho voluto seguirli in questo loro progetto, con la volontà però di non fare un’”operazione nostalgia”. Lo abbiamo imparato dai nostri genitori, che avevano nostalgia delle loro terre di origine ma hanno scelto di restare, stringere i denti e tirare avanti, anche in condizione di estrema difficoltà e disagio.
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Dove si estendeva Sciangai?
A livello geografico si estendeva dal lato ovest di via Aosta fino a via Resia, poi da lato sud di via Milano fino al fiume Isarco.
Come mai viene scritto in questo modo Sciangai?
Noi diciamo sempre che si scrive come si mangia, era un quartiere popolare, tutti sapevano che in Cina c’era una città che si chiamava così ma nessuno sapeva come si scrivesse. Non era piacevole essere chiamati sciangaioli, si veniva considerati dalla “gente bene” della città un ammasso di persone di provenienze strane che parlavano dialetti incomprensibili. A Bolzano non esiste un dialetto perché erano talmente tante le varietà dei dialetti che non c’era altra alternativa di parlare un italiano semplice, per capirsi tra persone con origini così diverse.
Cosa volete trasmettere con questo evento che ripercorre la storia di Sciangai?
L’idea che ho proposto e che è stata condivisa è questa: bisogna avvertire un forte senso civico, Sciangai ha dato a questa città una classe dirigente ma anche grandi professionisti, insegnanti, artigiani, commercianti. A questa città bisogna restituire una parte del suo patrimonio storico, per capire che anche quella parte negletta della città è parte del DNA di Bolzano e dei bolzanini. Quando i cittadini hanno la consapevolezza delle loro radici e di quanto sono profonde e robuste allora possono diventare cittadini sicuri, che hanno chiare le origini di questa sicurezza e non vivono nella provvisorietà. I nostri pionieri, i primi ad arrivare a Sciangai, erano coloro che hanno vissuto la provvisorietà, oggi grazie a loro non è più necessario viverla. Durante la manifestazione ci sarà un coro di anziani del quartiere che canterà delle canzoni che ricordano quei drammi, tra queste la canzone di Modugno Amara terra mia, in cui viene detto “Cieli infiniti e volti come pietra, mani incallite ormai senza speranza” ed era questa la realtà che ha costretto molti giovani a fare i bagagli ed andare via, verso un ignoto che era la loro opportunità da cogliere. Era un po’ come la conquista del West in America: chi partiva verso ovest non sapeva cosa avrebbe trovato ma sapeva cosa desiderava e si aggrappava a quel desiderio. Le delusioni non sono mancate, in una drammatizzazione si racconta di questa famiglia venuta da Rovigo con 5 figli, che sognava una casetta e si vede assegnare queste 3 celle del campo di concentramento con i servizi in fondo al corridoio. In un'altra rappresentazione dal titolo Lettera Gialla si racconta il dramma di una famiglia veneta che riceve questa busta gialla per l’appunto, che la Lancia mandava agli operai per dire che gli venivano ridotte le ore da 48 a settimana a 24, ed era un dramma, voleva dire dimezzare il reddito. La parola Amarcord è stata scelta perché per noi vuol dire amore e cuore, e non si possono non provare queste emozioni se si è vissuti in mezzo a così tanta umanità. Nei momenti di difficoltà economiche ci sia aiutava tra famiglie vicine, e chi riceveva la confezione di pasta o di caffè, non si sentiva mortificato nel ricevere perché a dare era un altro povero, che capiva la miseria e la rispettava. Questo per noi bambini era un insegnamento forte.
Quale è la sua esperienza di vita del quartiere?
Mio padre scherzando diceva che, se fosse crollata la casa, io mi sarei salvato sicuramente, perché non c’ero mai, ero sempre fuori. Andavo a giocare a calcio dentro al campo di concentramento, frequentavo la scuola lì difronte. La mia era una famiglia di 6 persone. I miei genitori erano entrambi pugliesi, io per gli amici ero un “terrone”, e la cosa mi offendeva. Quando hanno iniziato ad apprezzarmi per come giocavo a calcio o per la mia compagnia hanno smesso di chiamarmi così.
La mia merenda era sempre la stessa, pane con i pomodori secchi, che era un po’ l’identificazione del terrone per i bambini, io me ne vergognavo molto e la consumavo subito per non farmi vedere dagli altri. I miei amici avevano panini con formaggio, con il burro e lo zucchero, con il salame e mi sembravano tutti migliori del mio. Non era vero ma questo l’ho capito dopo, quando ho visto che la madre della famiglia veneta che abitava vicino alla mia aveva chiesto a mia madre come seccare i pomodori secchi e farli sott’olio. Mia mamma da lei ha imparato a fare la polenta. Vivere in mezzo a questi scambi mi ha formato, vivevamo tutti questo forte senso di comunità, era come se tutti fossimo parenti, vivevamo anche le festività e le ricorrenze religiose assieme.
Si sente spesso parlare di questo spirito di Sciangai, di un senso di comunità che va sparendo, per lei è così oggi?
Purtroppo, questo senso di comunità non c’è più, oggi è tutto molto diverso, però noi ce lo portiamo dentro. È un quartiere che ha visto fenomeni di grande solidarietà, basti pensare che la chiesa don Bosco è stata costruita dagli abitanti del quartiere durante le ore libere, e non tutti erano credenti. Stamattina ho parlato con il parroco di Don Bosco per ricordargli che è depositario di queste storie, mi piacerebbe che la Chiesa diventasse luogo di questi momenti culturali, mi sto muovendo con il parroco proprio per fare una mostra di fotografie dell’epoca in chiesa.
Cosa ha dato Sciangai a Bolzano?
Dal punto di vista economico quella zona industriale produce ancora oggi la maggior parte del reddito della città ma anche il 20% del reddito della Provincia. Quel quartiere poi ha prodotto una classe dirigente temprata, forte, determinata che ha ricoperto ruoli impegnativi. Il mio è uno dei tanti esempi, anche l’ex sindaco di Bolzano Bolognini era di via Milano. Dal punto di vista urbanistico la città prima di Sciangai contava 39 000 abitanti, di cui 1800 di lingua italiana, Sciangai ha contribuito a farla arrivare ad 80 000 ed oggi i numeri sono ancora più grandi. Prima di questo grande cambiamento Bolzano non aveva il vescovo, c’erano quello di Trento e quello di Bressanone, questo può dare un’idea di quanto le persone che si sono trasferite a Sciangai abbiamo contribuito a creare una nuova città.
In che modo questo riscoprire la storia può essere utile per il futuro?
È un seme quello che noi lanciamo con queste storie. Se pensiamo al seme della quercia è un seme stupido, insignificante, ma dentro ha tutto il progetto di una pianta gigantesca, robusta, ben piantata. Il nostro sogno è che questo seme trovi terreno fecondo per far prendere consapevolezza di queste radici come patrimonio comune di tutti i bolzanini.
Ettore Frangipane, autore di “Bolzano scomparsa”, ci ha restituito una storia della città che deve diventare la nostra storia. Impossessarsi di queste radici e diventare consapevoli ci permette di rafforzare il nostro senso di appartenenza a questo territorio. Il riconoscerci l’un l’altro ci permette di creare un senso di identità, ma non quella che ci siamo portati dietro dalle migrazioni, quella nuova, vera, di cittadini speciali in una terra speciale. L’autonomia che abbiamo non ci deriva dall’alto, dalle istituzioni, ma è un’autonomia che ci portiamo dentro.
"Amarcord Sciangai", la manifestazione del 18 NovembreQuesto sabato, dalle ore 16 alle 19, sarà possibile partecipare alla manifestazione che si terrà presso la Sala Europa, in via del Ronco 11. All'interno del programma ci sono le due rappresentazioni teatrali "Campo di concentramento" e "La busta gialla", la comicità delle sorelle Abram oltre a tanti interventi di chi ha vissuto in prima persona la storia del quartiere Sciangai.